Si calcola che finora abbia venduto qualcosa come 7 milioni di copie, a cominciare dal suo bestseller Ottolenghi, datato 2008. Sono seguiti fra gli altri Plenty, Jerusalem e SIMPLE. Oltre ad aver cambiato il modo di mangiare e cucinare degli inglesi.
La Storia
C’è qualcuno che in questi anni ha cambiato il modo di mangiare e cucinare degli inglesi. Non grazie ai riconoscimenti delle guide, ma per via di una filosofia personale nell’approcciare la materia, divulgata agli avventori, ai lettori e più raramente ai telespettatori, dei quali ha incontrato un bisogno condiviso. Questo qualcuno è Yotam Ottolenghi, certo un cuoco di successo, alla testa di 6 ristoranti e gastronomie, ma anche un autore prolifico di libri fortunati. Si calcola che finora abbia venduto qualcosa come 7 milioni di copie, a cominciare dal suo bestseller Ottolenghi, datato 2008. Sono seguiti fra gli altri Plenty, Jerusalem e SIMPLE.Il nome dice già che non si tratta di un figlio di Albione: Ottolenghi ha origini ebraiche, ma anche un po’ italiane, visto che il cognome rappresenta un’italianizzazione di Ettlingen, città nel Baden-Württemberg da cui i semiti furono espulsi nel XV secolo, per trasferirsi spesso nel nostro settentrione. E in Italia Yotam era avvezzo a tornare in vacanza, mentre nella sua casa di Gerusalemme mangiava polenta e polpettone. I genitori, un professore universitario di chimica e la preside di un liceo, di quel figlio brillante sognavano di fare un intellettuale come loro. Dopo il servizio militare, ecco quindi Yotam laurearsi e svolgere un master in letteratura comparata, con una tesi sulla filosofia dell’immagine fotografica, per poi iniziare a lavorare nel giornalismo. L’assassinio di Rabin è uno spartiacque: “Israele stava diventando di nuovo un paese chiuso, viveva secondo le sue regole. In me cresceva il desiderio di vivere altrove”. Ma l’altrove non è solo geografico: Yotam compulsa febbrilmente Julia Child, sperimenta qualsiasi tipo di ricetta e ogni sera ha ospiti a cena. Proprio mentre considera l’eventualità di prendere un dottorato ad Amsterdam, parte a sorpresa per Londra con l’intenzione di frequentare il Cordon Bleu. “Questa è la mia dissertazione. Ho deciso di prendermi una pausa dall’accademia e iscrivermi a una scuola di cucina”, recita l’incredibile biglietto infilato, o meglio nascosto, nella sua ultima fatica di intellettuale mancato. E il padre non la prende certo bene: “Non mi sembra una buona idea”.
Abbracciata la nuova vita, dopo avere lavorato come cuoco e pasticciere in vari ristoranti fine dining, arrivando quasi a mollare per lo stress, ed essere scappato da una catena commerciale, Ottolenghi passa per caso davanti alla bottega artigianale Baker and Spice e si ferma: è quello il suo luogo. Dietro al bancone, un tripudio di insalate mediorientali e capresi, lo chef si presenta: “Sono Sami e vengo da Tel Aviv”. Ottolenghi ha trovato un complice, il palestinese Tamini, che diventerà suo socio e coautore dei suoi libri. Con lui nel 2002 apre la gastronomia Ottolenghi a Notting Hill, presto assurta a luogo di pellegrinaggio per la proposta dirompente, dove i vegetali e le spezie mediorientali sono portati alla ribalta e combinati creativamente. Il loro è un lavoro congiunto di scavo nella memoria comune eppure divisa, volto a stupire nel comfort, dove la divisione di Gerusalemme sembra quasi trovare una forma di pace. “Voglio dramma nel piatto”, sintentizza Ottolenghi. E un anno dopo l’altro i locali si moltiplicano, combinandosi in un piccolo impero: prima altre due gastronomie, poi un ristorante formale, una brasserie e un ristorante vegetariano.
Israele, Palestina, Italia: se Ottolenghi è diventato un fenomeno gastronomico prima che mediatico, è innanzitutto per la cifra mediterranea della sua cucina, un’esplosione di colori brillanti e gusti vivaci, che descrive paesaggi lontani dal Big Ben. Quando ha iniziato a diventare popolare, con i trend-setter che si mettevano in fila di buon grado per insalate variopinte come quadri di Matisse, buona parte degli inglesi ignorava l’esistenza di tahina e sommacco. Le cose sono cambiante, stravolgendo gli scaffali dei supermercati, nel momento in cui da columnist di The Guardian ha iniziato a firmare una rubrica settimanale sulla cucina vegetariana (mettendo subito in chiaro di non esserlo in prima persona, anzi suggerendo spesso le carni cui abbinare i contorni) e ha pubblicato i primi libri. È storia come assillata dai lettori che non riuscivano a reperire gli ingredienti indispensabili per le ricette della rubrica, la catena Waitrose abbia rivoluzionato la sua gamma di spezie e condimenti. Prima che Ottolenghi lanciasse la sua propria linea di prodotti e il melting-pot guadagnasse l’egemonia gastronomica a Londra.
Ed è stata una rivoluzione sferrata nel nome di flavour principle elementari, per bandiera un piatto di broccoli all’aglio bruciati sulla piastra dalla cottura millimetrica, provocazione che si risolve nella gioia delle testure. “Ciò che rende il limone e l’aglio una metafora così efficace della nostra cucina sono l’intensità, la scorza, la forza, i profumi talvolta contrastanti della nostra infanzia”. Al punto che il critico Jay Rayner conclude, rallegrandosi di vivere nell’era Ottolenghi: “Siamo andati avanti, con questo libro come guida. Abbiamo dimestichezza con l’harissa, la melassa di melagrana e il labneh”.
Niente tecniche da Nasa, piuttosto ricette facili da preparare e visivamente spontanee, per un appeal familiare che ha emancipato le tavole inglesi, ancora egemonizzate dal rigore transalpino. Ottolenghi ha in mente ben altro: si tratta di riscattare un sano edonismo, lungamente mortificato oltremanica. “All’improvviso vi hanno fatto sentire in colpa per il divertimento. Sempre e solo diete, salute, provenienza, morale e chilometraggio. Che noia e che errore”, scrive. Con lui a trionfare è piuttosto la gioia del Mediterraneo.
Contributo testi: Jay Rayner