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Usare la cucina classica per fare sperimentazione: il progresso di Stefano Sforza al ristorante Opera di Torino

di:
Alessandra Meldolesi
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Il debutto al Louis XV di Alain Ducasse a Monte Carlo per intraprendere un percorso di sperimentazione del gusto partendo dal classico, che lo ha portato a definire un suo stile di cucina, definibile in un mix di grande effetto tra riconoscibilità e scoperta.

La Storia

Avevamo lasciato Stefano Sforza a Les Petites Madeleines, subito prima di prendere il treno alla stazione di fronte: uno chef giovane per audacia non meno che all’anagrafe, la cui coerenza non si infrangeva sulla paura di sbagliare. Cosicché il pasto, piacesse o meno, non lasciava indifferenti né si dimenticava in fretta. Ed è un piacere ritrovarlo in un ristorante cucito su misura sulla sua sensibilità da una proprietà motivata, soprattutto maturato nello stile senza smarrire il dono dell’audacia. Quasi che quello che poteva sembrare un errore fosse via via maturato in uno stile.


Difficile trovare un correlativo gastronomico più fedele alla torinesità, di questi piatti in cui riecheggiano le lezioni di Davide Scabin e Pier Bussetti, a loro volta figli del Santopalato futurista. Del primo nel gioco sinergico dei gusti primari e nei riferimenti classici di base; del secondo in certi schemi binari. Ma è più in generale l’acidità ricorrente a colorare la cartina di tornasole identitaria: Torino centro, senza tema di sbagliare. Anche se la formazione di Sforza è stata più vasta e più varia: prima il Louis XV di Alain Ducasse, poi Del Cambio con Ferrero, e ancora Taglienti al Trussardi e il succitato, troppo presto dimenticato Pier Bussetti. Sui due poli di una pila bella carica, che per tre anni ha alimentato la cucina del Turin Palace nella prima esperienza da chef.

Il debutto a Monaco mi ha fatto subito capire lo stile di cucina che faceva per me: classico”, afferma un po’ a sorpresa. Ma se nel piatto la sapienza e le tecniche sono antiche, il gusto è sperimentazione. “Perché è il progresso della cucina, con l’ausilio della tecnica. Un mix di noto e ignoto, riconoscibilità e scoperta”.

Foto di Davide Dutto




Opera ha aperto nell’aprile 2019 con la complicità della famiglia Cometto: all’interior design ha provveduto Emanuele, architetto, mentre il figlio Antonio, che già mandava avanti due ristoranti, si è tolto lo sfizio di un gourmet. E da quel momento, nonostante il periodo travagliato, non sono mancati i balzi in avanti: quest’anno è stato allestito un orto e il prossimo, chissà, potrebbe essere la volta di un laboratorio, per lavorazioni extraordinarie come i panettoni. Quello dell’orto è un lavoro molto lungo, ci sono sempre margini di miglioramento in diverse maniere, ma è bello avere la propria materia prima e una storia in più da raccontare al cliente. Ne è nata anche l’idea di proporre il menu monoingrediente, che mette al centro della sequenza un unico ortaggio di nostra produzione”. Il primo è stato il degustazione pomodoro, composto di assoluto di pomodoro, ricavato dall’acqua con l’aggiunta taglientiana di frutto della passione a rilevare l’acidità; raviolo con tartare di pomodoro confit, pesto di erbe e coulis di pomodoro giallo; velo di uovo con avocado, chutney di pomodoro verde e latte di mandorla; melanzana al forno farcita con la sua polpa, pomodori al forno e caciocavallo; dessert di cocco e pomodoro confit. Secondo la data di riapertura, potrebbe quindi toccare al carciofo o all’asparago.


Ma la ricerca è anche sulle frollature dei pesci.Abbiamo iniziato in agosto, con l’intenzione di capire fin dove potessimo spingerci. Quindi la triglia ripulita in modo maniacale dal sangue nella lisca, ricoperta di burro di cacao, come facciamo con il piccione, e lasciata appesa in frigo per 15-20 giorni, prima di una cottura brevissima: il risultato sono un gusto mai provato, molto intenso, e una testura asciutta ma non stopposa. Lo step successivo sarà mettere sul piatto il pesce fresco e quello frollato, per fare apprezzare la differenza. E sperimentare su altre specie di maggiore pezzatura”.

Il piatto è tutto per materie prime sostenibili ed “etiche”: a dispetto della sirena classicista, Sforza ha saputo rinunciare a feticci quali foie gras e anguilla, alla rana pescatrice e alla cernia bruna. Mi documento sempre sugli ingredienti problematici o a rischio di estinzione. Laddove non arriva l’orto, mi rifornisco dai contadini a Porta Palazzo. Siamo noi che dobbiamo insegnare sostenibilità e stagionalità ai nostri ospiti”. Largo quindi a pesci “poveri” come muggine, sgombro, alici e al quinto quarto: ancorano verso il basso il food cost, ma fanno anche evadere dal repertorio di casa.

Foto di copertina di Davide Dutto

I Piatti

I menu sono due, oltre la carta: il vegetale sopra delineato (al momento cavolfiore, per la serie crucifera e delizia), con le sue 6 portate a 75 euro, e Opera, con 8 piatti sempre diversi a 80 euro (più il pairing a 40 o 60 euro). In accompagnamento la carta dei vini a cura del giovane sommelier Carlo Salino ha iniettato un surplus di Francia e naturali su una base saldamente piemontese. Per assecondare la cucina, privilegia vini bianchi e poco strutturati, dove il terroir ha la meglio sull’enologia. In tutto si tratta di 300 referenze, con il 60% di Italia, il 30% di Francia, il 10% di nuovo mondo, per circa un terzo naturali.


I fili conduttori sono due: la presenza di frutta nel salato, per spingere l’acidità, e la nota affumicata, che scalda con un’aria di casa. In generale i piatti sono tutti ritmati da tre ingredienti, anche nei titoli, che sospingono dietro le quinte suggeritori e macchinari.

“Ho deciso di utilizzare il cavolfiore perché è un ortaggio poco valorizzato ed è difficile trarne un menu. Ho iniziato le mie prove a settembre, partendo dalla fermentazione con la tecnica dell’aglio nero e ho scoperto che il gusto cambiava completamente, da lì ho cercato di sviluppare il piatto. La cosa più complicata è stata realizzare il dessert, perché cercavo un gusto più morbido che incisivo, quindi ho pensato di abbinarlo alla mandorla ed è nato il biancomangiare”.


Il menu inizia von il velo di centrifugato di mela granny smith su un mosaico di panna acida e cavolfiore fermentato a 70 °C per 288 ore, ossia 12 giorni, per un esito quasi da caramella mou alla liquirizia, dalla balsamicità inaspettata, più brunoise di mela e una spolverata di polvere di cipolla. Dove il pensiero corre a Scabin e alle sue folgoranti sinergie da assemblaggio di gusti primari.


Segue la royale di cavolfiore, con una base all’albume cotta al vapore, la quinoa soffiata e il bergamotto, per un passaggio molto pulito.


È elegantissimo e soffuso, un piatto di riposo che accontenta tutti, il fagottino ripieno di classico cavolfiore gratinato servito con vellutata di Parmigiano, limone candito e una nevicata di tartufo bianco, in liaison con il formaggio e con la gassosità dell’ortaggio. “In generale cerco di alternare gli stili, creando alti e bassi che mantengano alto il coinvolgimento. Il menu deve essere lineare e divertente, senza monotonie acide o amare, in modo che il gusto arrivi sempre dove voglio”.


Assurge quindi a secondo, per il suo volume gustativo, il cavolfiore cotto intero nel latte e poi arrostito nel barbecue, che viene sporzionato al guéridon e spolverizzato infine di noce moscata: dove il gusto è complesso, la consistenza croccante fuori e morbida dentro.


Il dessert è un biancomangiare con il cavolfiore al posto delle mandorle, più gelato e copertura di mandorle e pere.


Dal menu Opera arriva invece Cachi e aringa, con una base di purea al naturale, i ravioli di fettina di caco mela farciti di crema di aringa dissalata nel latte e frullata, più i capperi fritti. Tre ingredienti in sinergia gustativa.


Lo sgombro, marinato in sale e zucchero e cotto confit nell’olio, è racchiuso fra foglie essiccate di cavolo nero e servito con il garum delle sue interiora e una mela sgrassante, messa in osmosi nel gin della casa ai profumi di ginepro, anice stellato e pepe.


Soddisfa gli appetiti classici, ma spinge anche sull’acidità, l’animella in carta, cotta classicamente alla plancha e nappata nel burro, infine glassata in un jus di vitello lento al carpione. Interessante anche la guarnizione, con la brunoise di patate appena saltata a secco, che rilascia l’amido sufficiente per la modellatura in quenelle, e l’uva al naturale e in carpione.


Oppure il diaframma, cotto sulla piastra, passato al barbecue e lasciato riposare 15 minuti in modo che riassorba il suo copioso sangue, servito infine con una specie di gremolada di prezzemolo, limone, salsa ponzu e una rosa di rapa rossa con marmellata di kumquat e cialdina di pane, la cui testura schioccante ricorda lo zenzero marinato sul sushi.


Il risotto è vegan friendly: nessuna mantecatura con burro e Parmigiano, rimpiazzati da una maionese al latte di soia. Si tratta del Carnaroli affumicato degli Aironi, più bottarga, alici e olio al finocchietto.

Il predessert, infine: un sorbetto al dragoncello rinfrescante, effetto dentifricio, con mango verde a brunoise e maturo in purea, limone bruciato e un olio al peperoncino che risveglia le papille con un trillo crudele.

 

 

GLI ABBINAMENTI DI CARLO SALINO


Su cachi e aringa ho utilizzato un sakè tonic fatto con sakè Kodakara Ginger e yuzu, per sfruttare le proprietà digestive dello zenzero in apertura di menu degustazione, riprendere la marinatura sotto sakè eseguita dalla cucina sul caco mela e aiutare la preparazione del palato alla portata successiva, vista la lunghezza gustativa dell’aringa affumicata.

Su sgombro e cavolo nero proponiamo il Brut Privilège di Gérard Perseval (Chamery, Pinot Noir e Pinot Meunier con elevage en fût), Champagne dalla ricca mineralità e sapidità, perfetta per accompagnare il piatto, cui il legno conferisce uno splendido colore dorato e una struttura in grado di supportare l’oliocottura dello sgombro. Nel contempo manteniamo il perlage per riavere una nitidezza di sapori sul piatto successivo.

Per l’animella abbiamo invece giocato su un rosso, dove comandano il fiore e il frutto rosso nella sua fine rusticità, la freschezza e l’acidità vincono su maturità e strutture, adatto quindi per accompagnare le acidità dell’uva in carpione, senza sparirvi dietro, per seguire le strutture dell’animella con tannino morbido e setoso, mantenendo una bella freschezza che contrasti la cottura nel burro e l’intensità di sapore della ghiandola in sé. Si tratta di Sous Le Mont di Emmanuel Giboulot.

Velo è un piatto fresco, tecnico e dai sapori ben delineati, che gioca con la lunghezza gustativa del cavolfiore fermentato. È per questo che associo solitamente una bolla italiana fresca ma di carattere, anch’essa simbolo della sostenibilità ambientale e delle fermentazioni spontanee: il Quattrocento di Nicola Gatta, 70% Chardonnay 30% Pinot Noir, 40 Lune sui lieviti con un’acidità che sostiene la freschezza, un perlage che pulisce i retrosentori fermentativi e un sorso intrigante che proietta verso la portata successiva.


A sposare la golosità e la pienezza del cavolfiore gratinato, utilizzato nel ripieno del fagotto, è quindi intervenuto il Puligny Montrachet di Julien Cruchandeau 2018, purtroppo un po’ giovane, ma su quel piatto è piacevole avere ancora una vivida acidità di annata recente. 100% chardonnay e un anno e mezzo in barrique per un naso intenso, di agrume candito e frutta gialla, con marcata nota fumé di terroir e vaniglia di affinamento. Calice goloso per piatto goloso.

Poi la territorialità. Anziché chiamare in gioco un rosso, abbiamo supportato la struttura del diaframma con un orange di Carlo Daniele Ricci, “Io cammino da solo”, a base di uve 100% Timorasso macerate per 100 giorni all bunch in anfora georgiana. Questa intensità dovuta alla lunga macerazione sviluppa note ossidative che giocano un ottimo ruolo in discordanza con la spinta citrica della salsa gremolada.

Sul dolce biancomangiare invece ho abbinato un appassimento naturale di uve moscato di Castiglione Tinella: il Sol di Ezio Cerruti. Un grado zuccherino che supporta appieno la dolcezza del dessert e un corredo aromatico che riprende l’innesto di pera utilizzato. Ma se il cliente apprezza abbiniamo anche un Calvados.

Foto dei piatti di Davide Dutto

Indirizzo

Opera Ingegno e Creatività

Via Sant’Antonio da Padova, 3 – Torino

Tel. +39011.19507972

Mail ristorante@operatorino.it

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