Alta cucina

Quali sono i piatti più iconici dei grandi chef italiani secondo Alessandra Meldolesi

di:
Alessandra Meldolesi
|
piatti italiani

I piatti che hanno lasciato un segno indelebile nella storia della grande cucina italiana. Piatti che hanno valorizzato ulteriormente la tradizione della nostra gastronomia o hanno aperto nuove prospettive al cambiamento, divenendo dei punti di riferimento per le generazioni future.

I Piatti

“Icona: figura o personaggio emblematici di un’epoca, di un genere, di un ambiente: Marylin Monroe, l’icona della femminilità”, recita il dizionario Treccani al quinto e ultimo punto. Ed è un esercizio divertente (fatelo anche voi) chiedersi quali siano state le ricette “Monroe” della cucina italiana. Ci sono chef titanici che è impossibile ricondurre a un singolo piatto, come Gianfranco Vissani, istinto puro e impermanente. Altri che hanno cristallizzato il loro talento in un gesto con cui siamo tuttora intimamente familiari.


Il primo piatto che mi viene in mente è l’Uovo in raviolo di Nino Bergese e Valentino Marcattilii, emblema del San Domenico. Una ricetta dalla probabile genesi mediorientale, che applica lo schema della separazione al classico tortello emiliano, sfruttando la cognizione delle temperature al cuore e ricollocando la salsa all’interno. Evergreen.


Poi il Riso, oro e zafferano di Gualtiero Marchesi, forse il piatto più iconico di sempre, sorta di mandala che celebra la sacralità della tradizione attraverso il gioco delle forme (l’opposizione fra quadrato e cerchio, tipica dell’estetica giapponese) e la luminescenza al confine del commestibile di un metallo da icona ortodossa.


Ma anche gli Spaghetti alla lampada del suo antagonista Angelo Paracucchi, maestro della pasta e dell’italianità in tempo di francesismi.


Parlando di pasta secca, impossibile non menzionare il Vesuvio di rigatoni di Alfonso Iaccarino, uno che ebbe l’ardire di sdoganare il quotidiano mediterraneo quando imperava “l’oscurantismo” esterofilo.


E ancora, immancabile, la Passatina di ceci e gamberi (in realtà mazzancolle) di Fulvio Pierangelini, declinazione del classico binomio pesce-legumi sottoposta nel tempo ad autoremake.



Fra le pasta anche gli Spaghetti con il cipollotto di Aimo e Nadia, che sfruttano in mantecatura la vischiosità del vegetale estratta dal semplice taglio, e i Tortelli di zucca del Pescatore, immutabili, imperfettibili. Highlander.


In tempi più recenti mi viene in mente il Cappuccino di seppia di Massimiliano Alajmo, che ha generato la sublime psichedelia del cappuccino murrina nelle sue strepitose varianti.


Non da meno il Tuorlo marinato targato Cracco-Baronetto, ricetta madre di innumerevoli altre ricette, entrata nel repertorio della cucina internazionale.



E poi il Cyber eggs di Davide Scabin, capolavoro del food design e dello studio sull’influsso delle emozioni nella percezione del gusto. Ma anche l’Assoluto di cipolle di Niko Romito, paradigmatico di uno stile di cucina per scarnificazione che continua a regalare tesori, non solo a Castel di Sangro.


Nella piena attualità la Caesar salad di Massimo Bottura, giovane chef che continua incredibilmente a crescere: un’insalata che si è sfogliata in ricette sempre entusiasmanti, anche dolci, come in una serigrafia di Andy Warhol.


Last but not least la Cacio e pepe in vescica di Riccardo Camanini, clamoroso capolavoro che cortocircuita la cucina internazionale, il classicismo francese e l’italianità profonda da trattoria capitolina. Non meno cosmica che coreografica nella sua sfericità perfetta.

Impossibile sottrarre anche solo una referenza (varie ricorrono del resto fra gli interpellati) da una lista egemonizzata non a caso dai primi piatti. Racconta la progressiva emancipazione della nostra cucina da qualsivoglia sudditanza o complesso di inferiorità. Perché sono le icone, in fondo, a ricordarci ogni giorno chi siamo.

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