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A pranzo dal miglior oste d’Italia: cosa si mangia all’Ostreria Fratelli Pavesi

di:
Alessandra Meldolesi
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ostreria pavesi

Una corte contadina alle porte di Piacenza, tre fratelli figli, nipoti, pronipoti d’arte e le eccellenze di un nobile territorio di confine. Perché l’Ostreria è una cosa seria.

La Storia

Tovaglie a quadretti, padelle di ferro e voluminose nonnine: non è questo, forse, l’identikit della trattoria del terzo millennio, sempre più spesso interpretata da uomini di sala e di cucina giovani, non solo anagraficamente. È il caso di clamorosi successi in Emilia Romagna, non una regione qualsiasi: ieri la bolognese Osteria Bottega, lungamente cucinata da Daniele Bendanti, oggi a Oltre; poi i Due Platani, che hanno tutta Parma in coda per i tortelli espressi e la montagna di gelato da Carpigiani verticale alla crema; last but not least l’Ostreria Fratelli Pavesi di Podenzano, nei pressi di Piacenza, recentemente insignita, nella figura di Giacomo, del premio Slow Food per l’Oste dell’anno. Come se fosse in atto una metempsicosi dell’antico conservatorio della tradizione, assurto a bisogno della contemporaneità, con una consapevolezza tutta nuova.


La location a Podenzano resta d’atmosfera: una corta primonovecentesca, delle tante ormai vedove in mezzo alla pianura. Non una qualsiasi, però: qui i fratelli Tavini, grandi proprietari terrieri, avevano costruito un complesso all’avanguardia dove sperimentare la meccanizzazione agraria. Un fiore all’occhiello, insomma, appassito dopo l’abbandono negli anni ’70 e passato di mano al comune, in mancanza di eredi.


Nel frattempo il bisnonno Giacomo, negli anni ’30, aveva aperto la prima osteria del paese: mesceva vino, soprattutto il Frambos, da uva fragola delle sue vigne; in accompagnamento salumi, formaggi e un piatto caldo, fosse brodo o lesso, minestra di legumi o frittata con la cipolla. C’era da accontentarsi. Suo figlio Giuseppe fu invece cacciatore con tanto di casa di caccia, dove con la moglie Giovanna organizzava leggendarie cene con le damigiane sui tavoli. E poi papà Luigi, che dopo la laurea in medicina, prima di indossare il camice, aveva aperto un ristorante ambizioso, il Villaggio, celebrato per ricette in voga come il risotto con fragole e Champagne, oltre che per una cantina monumentale, dove risuonavano parole magiche come Romanée-Conti e Monfortino.


“Ma è una storia che abbiamo solo sentito raccontare, dai parenti e oggi dai clienti, visto che ha chiuso nel 1980”, racconta Giacomo. Abbastanza tuttavia per innamorarsi della gastronomia, se è vero che lui si è laureato in Scienze gastronomiche a Pollenzo, mentre il fratello Camillo frequentava Alma e Giuseppe, detto Pepe, iniziava a spignattare da Eataly e in qualche osteria piacentina. “Poi è successo che abbiamo deciso di aprirne una noi: guardando al territorio, senza capitali alle spalle, ci pareva l’unica opportunità alla nostra portata. Dopo un’esperienza a Piacenza e qualche collaborazione, nel 2015 è capitata l’occasione di gestire questa struttura. E c’è voluto coraggio, perché era isolata e dimenticata da Dio”.

Foto credit: @lacucinaitalialiana

I Piatti


Il successo tuttavia ha bussato presto alla porta: la chiocciola Slow Food dal primo anno, il premio Oste dell’anno lo scorso ottobre. Nasce dalla selezione dei prodotti del territorio, appannaggio di Giacomo: a cominciare dai salumi di piccoli produttori piacentini e parmensi, finiti di stagionare nelle cantine della corte. Ci sono le tre dop provinciali (coppa, pancetta e salame), ma anche una sensazionale spalla cruda da maiale nero di Aldo Brianti e il sublime culatello di Podere Cadassa. Vengono serviti con la giardiniera della casa, che commercializza anche qualche mostarda, salsa e confettura.  In questo caso le classiche verdure della zona (sedano, carota, cipolla, cavolfiore, peperone e finocchio) sono spezzettate grossolanamente e scottate con aceto dell’Acetaia San Giacomo e Ortrugo dei Colli Piacentini, più un mix di spezie, per un esito aromatico, croccante e misuratamente acetico. È in vendita, con altri prodotti del territorio, nella bottega che si affaccia su un lato della corte, dietro le stalle adibite a spazio eventi e serate a tema con i produttori. Poi, sotto terra, c’è la cantina con i salumi e 500 etichette selezionate sempre da Giacomo, in gran parte naturali e artigianali, con la vicina Stoppa in evidenza.


In un territorio di confine, a un passo dalla Lunigiana, quindi dalla Toscana e dalla Liguria, ma anche dall’Oltrepò Pavese e dal Piemonte, il chilometro zero non è un dogma: ci sono le carni bovine della macelleria di Andrea Nicolini a Perino, mezzene che restano appese almeno 60 giorni; ma anche il wagyu americano o la rubia gallega, per un confronto fra eccellenze. “Cerchiamo di creare legami di amicizia, oltre che di lavoro, con i fornitori, in modo da fare sistema. Da ciascuno scegliamo l’eccellenza, anche se sarebbe più facile procedere per ordini aggregati”. E la cucina prosegue la sua evoluzione, con l’asticella che si sposta sempre più in alto.


Ci piace il quinto quarto, che va tanto di moda; ma non disprezziamo filetti e costate”, premette Giacomo. Di fatto è squisita la cervella panata grossolanamente, in una sorta di panko padano, cremosa e croccante, servita con spinaci al limone e scorza sempre di limone della Costiera Amalfitana.


Manca il pesce di mare, ma c’è quello di acqua dolce, perché una volta il Po era pescoso. Quindi il cappon magro di storione e salmerino, quando capita anche di gamberi di fiume, con la classica galletta, le verdurine e la salsa verde, ispirato a quello di coniglio dell’amica Brinca.


Porta un tono di noblesse il foie gras al torcione, eseguito secondo la ricetta dei Roca, marinato al latte e cotto sottovuoto con Vigna del Volta La Stoppa: è il ficatum di Gioachino Palestro, servito con Aceto Balsamico Tradizionale 12 anni, pistacchi di Bronte e classico pan brioche.


Un altro must è la selvaggina dell’Appennino di Zivieri e Sant’Uberto, valorizzata anche nei tagli meno nobili. C’è quindi la lombata di capriolo con guarnizioni di stagione (agretti, cavolfiore, pera al vino rosso), ma anche i cappelletti di sfoglia piemontese con stracotto di cervo, dove intervengono le sfogline della casa a tirare al matterello e sigillare. Né mancano i rispettivi fondi, base vitello con tagli di brodi e carni varie. In cucina ne sobbollono sempre non meno di 5.


Sono un must i Pisarei e fasò, preparati secondo la vera tradizione con cotica di maiale, poco pomodoro e i fagioli dall’occhio, che non si sfaldano nel sugo lento. E soprattutto la Bomba di riso, forse la migliore in circolazione, introdotta su input di Andrea Grignaffini, dove il modello verdiano è rivisto con il riso risottato e non bollito, mantecato con poco sugo di piccione, salsiccia e porcini secchi della Val Nure, abbondante condimento al centro e la crosta croccante di pangrattato grossolano. “Come un gigantesco arancino padano”.


Chiude il semifreddo di zabaione a base di uova a km 0 e Marsala 5 anni De Bartoli, caramellato al cannello e servito con Aceto Balsamico Tradizionale 12 anni, pinoli a legare e zenzero candito, su suggerimento di Filippo Chiappini Dattilo ed Ezio Santin, per il piccante a fine pasto.

Foto dei piatti di Lido Vannucchi

Foto di copertina @lacucinaitaliana

Indirizzo

La Faggiola Osteria fratelli Pavesi

SS45, 8, 29027 Gariga, Podenzano PC

Tel. +39 0523 524077

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