Attualità enogastronomica Chef Delivery

Io non faccio delivery: chi sono gli chef che hanno deciso di non farlo e perché

di:
Alessandra Meldolesi
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chef che non fanno delivery

Quella che per molti è stata la soluzione “tampone” della ristorazione, in questo periodo di chiusura causata dal coronavirus, per altri è un qualcosa di improponibile. Ecco perché.

La Notizia

Delivery e asporto possono davvero mettere un cerotto sulle ferite della pandemia? Se lo stanno domandando, con le risposte più varie, un po’ tutti gli operatori del settore. E se alcuni grandissimi cuochi sono saliti sul furgoncino in mascherina, per rinsaldare la connessione sentimentale con gli habitué, in tanti dubitano che la strada, con il pacco dentro il bagagliaio, sia quella giusta da seguire. Anche perché sul ciglio finirebbe tutto l’universo sala.

 

CHRISTIAN MANDURA



Fra i primi a esprimere le sue perplessità c’è stato Christian Mandura, giovane chef di Unforgettable. “Ma non si tratta di un no a prescindere. Il problema non è il delivery in sé, ma chi si improvvisa frettolosamente, illudendosi di salvare l’economia di un ristorante. Mentre ogni attività ha bisogno di investimenti, pubblicità, lavoro, posizionamento, strategie. Anche se in pochi lo dicono, lo scopo più che economico, è psicologico e di servizio verso la clientela. Ma non tutti possono permettersi di lavorare in perdita. Per gli stessi motivi abbiamo deciso di non praticare l’asporto: per fare un lavoro fatto bene, occorre tempo. Preferiamo concentrare i nostri sforzi sul modo migliore per riaprire. Stiamo portando avanti tre scenari, secondo le modifiche richieste, senza snaturare un format incentrato sulla convivialità del bancone. Qualora i coperti risultassero insufficienti, dovremo ripensarci o procedere a una chiusura temporanea”.

 

EROS PALMIRANI



Il Diana appena potrà aprirà, osservando le misure necessarie. Vedremo come sviluppare il lavoro in modo da sostenere gli impegni economici ed eventualmente integrare l’offerta con l’asporto. Ma temo che fino alla fine della pandemia la gente avrà paura di uscire a cena. Il ristorante è una cosa, dare da mangiare fuori un’altra. Può farlo solo chi ha pochissimi dipendenti, ma non è ristorazione, piuttosto rosticceria. E non è facile far quadrare i conti. La mia non è assolutamente una critica: se potessi, anch’io procederei. Dopo 110 anni terremo botta, abbiamo già avuto storie infinite e supereremo anche questa. Avevamo il libro delle prenotazioni pieno per due fiere a venire, tutta merce sprecata; abbiamo 100 posti a sedere che potrebbero diventare 40, gli stranieri non ci saranno e i clienti cercheranno innanzitutto serenità, perfino ampliare la pedana avrebbe un costo. Come si dice a Bologna, acqua e chiacchiere non fanno frittelle: vedremo”.

 

MATIAS PERDOMO


Foto Guido De Bortoli



“Da Contraste non faremo né delivery né asporto: abbiamo lottato tanto per far venire la gente a vivere un’esperienza, che non è replicabile a casa, anche per il numero delle portate. Ma avevamo un sogno nel cassetto, che abbiamo tirato fuori in questo momento di pausa e riflessione: una rosticceria che si chiamerà ROC, Rosticceria di Origine Contraste. Produrremo tutto nel laboratorio di Lambrate, che avevamo già acquisito un anno fa, con vendita a prezzi popolari. Stiamo studiando i piatti, per esempio filetto di baccalà al pepe verde, razza con ketchup di peperone, sgombro all’orientale, tutti venduti in vaschette monoporzione da rigenerare nel forno o nel microonde, con materiali biodegradabili e chiusure termosaldate per la massima sicurezza. Inizialmente la vendita sarà online, ma quando si apriranno le gabbie, cercheremo una location vera e propria. Poi c’è il progetto empanadas: è la prima volta che puntiamo su un prodotto. Nasce dalla passione di Simo e per questo si chiamerà La Empanada del Flaco. Quindi cibo di strada: 5 gusti al costo irrisorio di 3 o 4 euro, con vendita iniziale in delivery. La produzione si svolgerà nel laboratorio con una macchina che confeziona fino a 1000 pezzi l’ora. Per me l’alta gastronomia non morirà, anzi dobbiamo spingere ancora di più ed elevare ulteriormente il momento vissuto. Non possiamo mettere tutto nella stessa fascia, non voglio confinarmi al comfort. Meglio diversificare le proposte senza snaturamenti”.

 

NIKITA SERGEEV



La questione è molto semplice: non arrendersi è indispensabile. Ancora non sappiamo quando ne usciremo e per il momento non ci sono alternative. Ma un ristorante è un’azienda e ciò che interessa, oltre alla soddisfazione personale e all’ambizione, alla fine è il cassetto. Per quanto riguarda l’Arcade, abbiamo subito sentito che il delivery non era nelle nostre corde. Il lavoro che stiamo facendo richiede contatto fra cuochi e clienti. A distanza si sarebbe snaturato. Abbiamo valutato la possibilità di asporto da Banco 12, ma considerati pro e contro monetari e sanitari alla fine abbiamo optato per non aderire. Il gioco ci è sembrato non valere la candela, perché si tratterebbe di un investimento a rischio, cominciando dalle materie prime. Noi non viviamo in una grande città e non vogliamo proporre piatti che non ci rappresentino. Un paio di anni fa Masterchef aveva già creato dei mostri, illudendo le persone di essere cuochi provetti, qualcosa che adesso si potrebbe amplificare, perché tutto sembra scontato. Inoltre non ci sembra il momento di cercare pubblicità e comunicazione inviando pacchi agli influencer: è tempo piuttosto di salvare i ristoranti”.

 

LUCA VISSANI



“A Roma, da Tuo Vissani, potremmo tentare l’asporto, oltre a sfruttare le nuove capacità di dehors. Ma a Baschi, fra Orvieto e Todi, il mercato sarebbe irrisorio. Parlo da uomo di sala, senza voler attaccare il governo né minimizzare l’emergenza. Le scorciatoie sarebbero contrarie al motivo stesso per cui è nato un certo tipo di ristorazione.  I nostri sono locali particolari, dove si combinano i 5 sensi, oltre alla cucina contano le coreografie e gli ambienti, i prodotti locali vengono salvaguardati ed esaltati. Diversamente non avrebbero modo di esistere. Da noi non si viene per mangiare, ma per fare esperienze che valorizzino il territorio, anche estrapolato dalla tradizione. Significa creatività, cotture, tecniche, tutta una seria di annessi e connessi. Nel momento della preparazione del piatto, quando si lavora con 10, 12, 14 ingredienti e si movimentano quasi tutte le partite, al passe possono venire a trovarsi almeno 3 persone attaccate per le finiture sotto le lampade. Non possono avvicendarsi, altrimenti il piatto si seccherebbe. Per questo dico che l’alta ristorazione sarebbe impraticabile con queste restrizioni. Noi apriremmo non oggi, un mese fa, ma qui non si impiatta con un mestolo o una paletta. Diventa difficile anche dire al cliente: vieni con guanti, mascherina, plexiglas, fatti misurare la febbre e ogni volta che vai in bagno sanifico. Bisogna essere coerenti e seri: non andiamo a chiedere soldi come se fossimo dei poveretti, ma per salvare una categoria. Veniamo dall’inverno, a gennaio molti sono stati chiusi e fino a Pasqua qua si lavora solo nel fine settimana. Se devo lasciare 2 metri fra un tavolo e l’altro, diminuire i coperti a un terzo, l’azienda non sta in piedi. Abbiamo 18 dipendenti e un break even da 4000 euro al giorno. Non possiamo snaturarci. Non è possibile ‘smozzare’ Brunelleschi. Purtroppo nella task force non ci sono persone che conoscano il turismo, che costituisce il 13% del PIL. Farci aprire in queste condizioni sarebbe solo un modo per deresponsabilizzarsi, anche perché tutti batterebbero subito cassa: se qualcuno vuole fare saltare la ristorazione, lo dica”.

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