Aurorale e meridiana, poi abbagliante, crepuscolare e infine onirica, la cucina di Taglienti è sempre più esatta, dinamica e totale. Un planetario di stili in movimento che fa girare la testa e il palato.
La Storia
Inutile tergiversare: il Lume è oggi un indirizzo incontournable, come dicono i francesi, capace di rischiarare come pochi la cucina italiana. A tre anni dall’apertura la mano di Luigi Taglienti è diventata sempre più sicura e maniacale, inconfondibile e ineffabile. Tanto che sedersi alle sue tavole è una garanzia di appagamento non solo (ma innanzitutto) sensoriale: l’affilatura del gusto, chirurgico e privo di sbavature, si accompagna all’immaginazione che spariglia, dote del creativo puro, e alla rara audacia nel padroneggiare un eccesso che è sinonimo di eccitazione. Perché solo la disciplina può legittimare la follia.Taglienti, a dire il vero, esprime un classicismo tanto solido quanto spontaneo ed endogeno: qualcosa che viene da dentro, insomma, ed è per questo ancor più felice e naturale. Non gli mancano i maestri (Santin, Cracco, Sinicropi, Willer), ma è altro il pedigree che si immaginerebbe dietro piatti quanto mai sontuosi, in cui batte la storia stessa della cucina. Simile a un cuore ultrasecolare in preda alla tachicardia. Ed è la caccia, il terreno su cui meglio si apprezza questa antica vitalità selvaggia, disciplinata dalla tecnica e dal rigore, senza perdere mordente e pathos.
“Prediligo l’autunno e l’inverno: sono le stagioni della grande cucina, quelle che mi sento più attaccate addosso. Portano i tartufi, i funghi, i grandi vini, la selvaggina, le salse ricche… Me ne accorgo quando cambiano i profumi e la prima zucca al cartoccio sprigiona nell’aria castagne, cannella e chiodi di garofano. La Francia mi ha lasciato la visione della manipolazione del prodotto: come utilizzarlo al massimo e al meglio attraverso una parte creativa, una parte istintiva e una parte di visione. L’ho appreso da una mente iperdinamica come quella di Sinicropi: la volontà di creare qualcosa su basi reali, ma in chiave italiana”.
I Piatti
Di fatto le opzioni sono varie, tutte eccellenti: Taglienti racconta il vegetale, dove protagonista è attualmente il carciofo (un piatto 32 euro, 2 60, 3 90, 7 130); Taglienti racconta Taglienti, ispirato ai classici della cucina italiana (150 euro); Frutto di un momento, il più spinto (170 euro); Scene di caccia, attorno a 4 selvatici (il Germano con i suoi Giochi d’acqua, il Cinghiale per le Antiche gestualità, il Capriolo di Caccia nel bosco e la Lepre di Sangue Reale, rispettivamente 110, 50, 120 e 130 euro); più il tartufo bianco in stagione (4 o 6 portate a 250 o 350 euro).Gli stuzzichini danno la misura del pasto a seguire, qualunque sia la scelta: le deliziose cialde al minestrone alla genovese, ossimoro macchiato di farina di legumi, e la farinata bianca croccante di polvere di lievito madre e rosmarino, per una ricorrente nostalgia di Liguria; la zucca potimarron in osmosi alla verbena; la sardenaira versione cannolo finger; l’ormai iconica cialda di riso con crema di agrumi, petali e purea di erbette; la focaccia imbibita di acqua al pistacchio avvolta nella mortadella; il barbajuan farcito di crema di limone al basilico; il doppio pomodorino, ripieno di pappa al pomodoro, impanato e fritto; il lampone con burro al dragoncello.
La novità è che quest’anno lo schema del multipiatto a frattale si è esteso, dopo le prime avvisaglie in carta e lo studio del vegetale, ma senza schematismo: adesso è il momento della caccia, dove è applicato a lepre e germano. “Il motivo? Non riuscivo a sintetizzare in un unico piatto tutto ciò che avevo in testa. La circonferenza stava stretta. Da qui il servizio contemporaneo di pietanze autonome, ma in sinergia l’una con l’altra. Forse perché negli ultimi tempi ho viaggiato tanto per lavoro, da Taipei a Singapore, dove mangiano in condivisione, attingendo da piatti che vengono serviti contemporaneamente. Mi hanno spinto a tentare di concretizzare ciò che avevo in mente, anche per dare colore alla tavola, renderla dinamica e conviviale. In un modo diverso da Pierre Gagnaire, che seguo da sempre e ammiro per l’audacia. Io lavoro su un singolo ingrediente, con elementi di disturbo e di rischio”.
Come già sulle tavole del Duomo di Ciccio Sultano, sembra quasi che la freccia del servizio, dal francese al russo, si stia invertendo o aggrovigliando, per ragioni tanto estetiche quanto di modalizzazione del pasto, che ognuno si trova a poter personalizzare a piacere. Non senza difficoltà, per esempio di temperatura, da considerare di volta in volta. “Ma per esempio la lepre à la royale la tiene di suo, grazie alla forma compatta e alla salsa, che funge da coperta. Non amo dare istruzioni agli ospiti su come procedere: ciascuno è libero di affrontare i piatti a modo suo. Ogni ingrediente è un percorso, ogni percorso un racconto e ogni racconto una memoria gustativa attraverso le regioni italiane”. Quindi specialità tradizionali come il capriolo brasato alla polenta, la lepre in salmì o la coscia di germano in casseruola, all’incrocio con l’altro menu di impronta nostrana.
È un vecchio dispositivo narrativo, la lista: un’accumulazione che riunendo le cose, ne svela il carattere essenziale e così ne assicura un’esistenza stabile, facendole ancora più reali. E non c’è lepre più lepre di quella raccontata in questo Sangue reale: frollata tre giorni, è classica royale, forse la migliore d’Italia, al centro del planetario; con i satelliti della lepre alla piacentina, sfilacciata su un crostone, del brodo con pasta reale, del gobeletto finale, sul modello del dolce di Spotorno alla marmellata, qui farcito di carne come un timballo rinascimentale o il pasticcio in agrodolce cantato da De Andrè, insieme a zucca, amarena, spezie, lardo, mostarda di chinotto e confettura di albicocche al rhum. Un modo per raccontare la cucina italiana, da una regione all’altra, ricostruendo l’anatomia della bestia intera (un po’ tutti i tagli nella royale, gli anteriori alla piacentina, le cosce per il gobeletto, il lombo per il salmì, le ossa per il brodo e la salsa, dove finisce anche il sangue col cervello). Il risultato è anche una scappatoia dal cul-de-sac della riduzione algebrica che continua a connotare la cucina italiana, ricomplessificata per via di addizione per sottrazione.
Non è da meno il germano, frollato 45 giorni, poi sparpagliato in un gioco di seduzioni: il petto à la coque con millefoglie di pere al Marc de Champagne, deliziosa crema d’ostriche, emulsionata al naturale, e sontuosa salsa poivrade (con interiora); la coscia brasata in casseruola con insalatina di alghe e caviale; il giambonetto impanato e fritto nel burro di crostacei su ragoût di lumache alla ligure; il filetto crudo su crostino con maionese al Tabasco, tuorlo mimosa, caviale ed erba cipollina; gli spaghetti alla vodka con caviale e germano crudo, fra la nostalgia vintage e Gualtiero Marchesi. Dove viene variato l’abbinamento fra il selvatico, o meglio l’ossidato, e la sapidità dell’ittico, in un caso anche il muschiato, propiziato dalla frollatura che “amplifica la sapidità”.
Il cinghiale diventa invece il ragù speziato al vino rosso della lasagna, gialla e non verde; mentre il capriolo è filetto arrostito con strudel di porcini e pere e salsa poivrade; carpaccio con melagrana, cassis ed erbe aromatiche; coscia brasata con polenta, “come nelle baite”; spalla brasata avvolta nella verza con brodo di capriolo. Anche qui tutte le parti anatomiche in un servizio non doppio o triplo, ma multiplo e simultaneo, che reinterpreta il gusto italiano invertendo tempo e spazio delle sequenze classiche. “Sono ricette popolari, che eseguo rispettando i canoni della tradizione e cucinando con passione, mano e testa contemporanea. Sempre col mio tocco, per esempio lo zenzero nel brasato. Nel tentativo di rendere elegante qualcosa che rischia di perdersi”.
Ma in carta c’è anche la quaglia con il petto à la coque; le cosce brasate in casseruola con amarena e verza all’aceto; il budino di fegatini con cappuccino di funghi, omaggio a Santin e Chapel; il brodo talora corretto al Vermouth, talaltra no; il gratin di creste e rigaglie con panna, senape e cipolla gratinato alla salamandra per un tripudio di grassezza vintage, fra i registri ricorrenti del pasto (vedi la crespella con ricotta di bufala e spinaci al bergamotto o l’Île flottante con crema al burro al limone).
La stessa operazione è messa a segno nel carciofo, sfogliato fino al cuore del gusto. In attesa del tardivo di Albenga, si tratta di sardo, ma coltivato in Liguria. Avvolto nella sfoglia, riprende il concetto di una torta ligure; poi è farcito di carciofi stufati e focaccia (esca sentimentale dello chef, intrufolata perfino nella lasagna) e arrotolato in una foglia amara dalla pulizia detergente; preparato classicamente alla romana con i gambi di prezzemolo; ridotto a farcia dei pansotti nel suo brodo; servito crudo in insalata con scaglie di Parmigiano. Un assoluto di carciofo di diversa concezione.
Ma Taglienti, fuoriclasse perché fuori classificazione, padroneggia ogni stile di cucina. Sono un divertissement defaticante le teste di totanetti, sbianchite in acqua e aceto, passate in salamoia e sott’olio, in trompe-l’oeil sulle taggiasche. Mentre esercitano il muscolo avanguardista le orecchiette con le cime di rapa saltate alle acciughe e la centrifuga cruda, che estremizza la ferrosità; soprattutto Grasso e limone, piatto spiazzante che isola e di nuovo estremizza un principio di equilibrio sensoriale. Dove il succo dell’agrume è legato con l’amido e contrastato dal grasso di recupero della cottura del foie; più i riccioli a parte del grasso sudato dalla lepre à la royale. Scarto zero, come va di moda in altri domini, ma nessuno ha mai osato su un gusto ostracizzato; e un negativo fotografico della grande tavola, che somiglia alla narrazione controversa di un rimosso freudiano. Escoffier sul lettino.
Foto dei piatti di Alberto Blasetti
Indirizzo
Ristorante LumeVia G. Watt 37 – 20143 Milano
Tel. +39 02 80888624
Mail: restaurant@lumemilano.com
Il sito web del ristorante Lume