È un evento il quarto degustazione di Inkiostro, forse il più spinto di sempre: avanza sul doppio binario del giapponismo e del “sesto quarto”, con picchi gustativi insoliti e lo sguardo mobile sul territorio.
La Storia
Di chef’s chef come Terry Giacomello in giro ce ne sono pochi: punto di riferimento per tanti colleghi, da 4 anni a Parma porta avanti una ricerca tanto preziosa quanto instancabile. Ostinata e contraria in questi tempi di nostalgismo, brutalismo, talvolta perfino necrofilia. Da Inkiostro tutto è nuovo, mai mangiato, cutting-edge. Un’emozione che sembrava perduta per chi ha sniffato l’ebrezza della cucina anni 0. “Abbiamo lavorato ai nuovi piatti per più di un anno”, racconta. “Senza attenerci al dogma della stagionalità. È sempre più difficile non cadere nel déjà-vu, specie quando la brigata conta 5 elementi e non 40”.“Le idee possono arrivare in tanti modi: parlando con Davide Cassi, girando per congressi, viaggiando in vacanza o per lavoro. Allora prendo qualche appunto su un quadernino, poi inizio a sperimentare con la brigata appena c’è un attimo di tregua. I piatti possono cambiare presentazione, ma una volta in carta difficilmente variano”. In questa degustazione sono 18 assaggi al prezzo di 135 euro, ordinati secondo una struttura che recupera in modo originale lo schema italiano (antipasti, “primi”, secondi), ma lo sabota e lo inceppa con il sussulto di intermezzi praticamente permanenti, che sparigliano di volta in volta papille e aspettative. Stop and go, a mo’ di remix. E non manca qualche salutare scroscio di ironia.
“Andrea Grignaffini dice che non hanno punti di riferimento”. Ma qualche traccia in verità si intravvede. Innanzitutto la pista asiatica, che significa ingredienti e soprattutto fermentazioni. Poi, quale sua diramazione, quello che si potrebbe definire il “sesto quarto”, dopo il quinto quarto a tutti familiare: ovvero la valorizzazione dei brandelli più modesti e inestimabili (in negativo) degli alimenti, materiale da pattumiera foriero di consistenze oniriche. Ma Terry non dimentica il territorio, che sfreccia a tutta velocità dalla sua machine-à-creer: culatello, Parmigiano, erbe spontanee da foraging per fossi. E i picchi gustativi sono più aguzzi del consueto, quasi che l’avanguardia dalla tecnica stesse finalmente colonizzando la bocca.
I Piatti
Dopo gli appetizer, il benvenuto è costituito quindi da scarti di pollo rielaborati, con qualche clin-d’oeil alla Cina. “Tendiamo a usare ciò che nessuno prende in considerazione. Per esempio, l’esofago: il macellaio mi dà i colli e io lo tiro via, il resto va nei brodi per l’hotel”. Spurgato in acqua e sale, viene seccato e fritto, poi leggermente condito con formaggio asino per la sapidità e la cremosità, un pizzico d paprica dolce e acetosella. L’effetto ricorda un po’ la lisca di pesce per la leggera seghettatura longitudinale. Ma c’è anche la classica zampa, quella delle nonne: bollita, viene “pedicuré” togliendo unghie e ossicine, poi essiccata e fritta per essere servita glassata alla salsa barbecue con filamenti di alga kombu tororo, che simulano i filameni di una mummia. Effetto castagnola.
Ancora Asia, per la precisione Giappone, nel finto natto di anatto, spezia acidula e amarognola che viene frullata con acqua e addensata all’agar-agar. Ma il principio di individuazione della specialità nipponita è la bavosità: viene ottenuta dal siero di Parmigiano addizionato di semi di lino, per un effetto pasta e fagioli senza pasta.
Guarda indietro al classico, invece, la sfoglia di ostie inumidite al latte e burro chiarificato, sovrapposte e infornate, che si gonfiano naturalmente per un effetto vol-au-vent. Sono guarnite con spuma di patata affumicata e cotone di faraona.
Di nuovo Oriente, quindi, come il cavo elettrico di un filobus che attraversa la Bassa, nella Kombucha di melone, ottenuta inoculando la coltura nel succo, con gelatina di culatello, il suo grasso e pepe Sancho a scongiurare l’effetto putrido. Prima mina-intermezzo del menu, frizzante e acetica.
È poi delizioso il canapé di cartilagine di coniglio sbollentata, spellata, pulita al cotton fioc e fritta, servita con paté di fegatino e cervello fritto, gel di vermouth e foglie di papalo a rinfrescare. Erbe che arrivano dall’orticello dietro Inkiostro, seminate per mano dello chef.
Spezza ancora il flusso del pasto l’insalata (o giardiniera?) folle, semicerchio di erbe e germogli che compone un arcobaleno di gusti e consistenze del mondo: ci sono la noce cuore croccante, l’udo giapponese, il taranome, la foglia di cactus, il minicetriolino, i capperi di tarassaco e margherita, l’erba dei pappagallini, cuori di tifa locali, Sichuan button, unghie di gatto, foglie di begonia, erba camaleonte, reynoutria jaonica dei fossi di Sala Baganza, germogli di pungitopo, ora freschi, ora messi sottaceto con un condimento di lampone articolo che gioca la carta della dolcezza.
Per primo i ravioli di bottarga greca o avgotaraho (scelta per la malleabilità superiore all’italiana, grazie alla conservazione nella cera) impastata a mano e stesa fra fogli di Silpat, alla maniera del tuorlo marinato di Cracco. Dove la farcia si compone di miele di olmo e finger lime, la guarnizione di spicchi di lulo, frutto acidulo dell’America centrale, crema di topinambur e gocce di olio al levisttico. A comporre contrasti fra dolcezza, sapidità e acidità tanto spigolosi quanto inattesi.
Stacca ancora, come un’interferenza, il gommoso di mozzarella di bufala, dall’originale consistenza super-gummy ma sfogliata: la base è un brodo ottenuto frullando il latticino e il suo siero; vi si cuociono le tagliatelle trasparenti di soia nel Roner per 10 minuti, in modo che ne assorbano il gusto, testurizzandolo. Arrotolate tipo haribo, sono guarnite con caviale di olio di oliva e aceto di Sherry.
Lascia il segno anche la “patata centenaria”, cotta nell’OOCO per 8 ore a 70 °C, fino ad acquisire una colorazione brunita, un aspetto traslucido e un gusto soia, servita infilzata di finti getti, in realtà germogli di mais, salsa tipo tzatziki, ‘nduja e finta terra. Provocazione sul “disgusto” indotto dall’apparente marcescenza, come poi il celebre limone dimenticato.
Ancora un’interferenza, ma giocosa, con la zuppa calda di pop-corn in contrasto con la granita di Coca-Cola.
Il topos del blu gastronomico viene risolto da Terry in modo originale, ricorrendo al tè blu. Accompagna le chiocciole cotte sottovuoto e scaloppate finemente, più aceto tosazu, erba pepe, alga laurentia. A seguire il lattume di tonno cotto sottovuoto, impanato ai ciccioli di maiale e fritto con l’alkermes delle officine di Santa Maria Novella legato all’agar-agar in veste di salsa “agrodolce”.
Chiude classicamente la carne: il ragnetto, muscolo dimenticato ma ben marezzato, spadellato e servito con mole poblano, coriandolo viatnamita, una spirale di felce aquilina locale e una salsa di vino “rancido” che asciuga la succulenza. “L’idea mi è venuta scendendo in una cantina dove tante bottiglie erano ormai ossidate, perché non usarle?”.
La pasticceria non è inferiore al salato, come raramente accade nei ristoranti di questo stile e questa fascia. Al diamante di pisco sour, ghiacciato ma morbido, segue l’ultimo morso di Giappone: il mochi farcito al lievito madre pastorizzato in spuma, per la leggera nota acida, con polvere di semi di acacia australiana.
Poi la cadenza d’inganno dell’uovo al tartufo, doppiamente ingannevole: nient’altro che acqua sulfurea di Salsomaggiore con una spruzzata di acqua di tartufo. Puro profumo.
Il limone dimenticato è già un signature, ma si chiude col sorriso. Quello di Terry che ci mette la faccia, nella serigrafia sulla pasta di aceto e zucchero, sopra creme di cocco, pera, frutto della passione, cioccolato dulcey.
Foto di Gianluca Poli
Indirizzo
Ristorante Inkiostro
Via San Leonardo n 124 – 43122 Parma
Tel. +390521776047
Mail info@ristoranteinkiostro.it