Sfodera un’energia tutta etnica il nuovo menu di Massimiliano Alajmo: un inno all’italianità dove la spontaneità è riflessione, la tecnica un filo nascosto nel tessuto delle grandi occasioni.
Il nuovo menù
Tutti i nuovi piatti di Massimiliano Alajmo
Mai così etnico, a tratti perfino primordiale, Massimiliano Alajmo continua a stupire con grazia. All’amo di Aimo, per così dire, visto che la filiazione dal padre spirituale di Milano non si è mai manifestata così bene. Lo racconta quella minestra di foglie con fagioli e chorizo, scodellata senza infingimenti sulla tavola di uno dei migliori ristoranti del mondo. Sotto sembianze popolari che ne tradiscono l’immediatezza, oltre la quale sprofonda la verticalità delle ossessioni.
Ci sono le foglie invernali, testurizzate grazie a una complessa tecnica di essiccazione, che dona loro una testura masticabile e proteica, quasi di lichene. “È come se abbandonassero il mondo vegetale per vestirsi di una dignità animale attraverso la concentrazione a temperature controllate. Le poche proteine che contengono sono amplificate e anche denaturate, acquistando struttura”, spiega lo chef. Non senza una piccola nota di umami, rimpallata dalla salsa di soia. “Ed è una masticazione che fornisce un rimbalzo diverso alla mineralità della verza o della cima di rapa”. Una quasi zuppa etrusca, insomma, ma verticalizzata, con il cuscinetto di grano duro senza lievito, farcito di sorbetto di cipolla leggermente affumicata per il contrasto che sbalza, i fagioli e il chorizo, simil calabrese per gestione del grasso e forza-calore, alla base.
Eppure le apparenze sono quelle di una zuppa in una fumante trattoria toscana. “Perché non mi piace creare aspettative: il bello sta nella forma della materia, che ha una sua capacità espressiva. Invece in pasticceria (ed è un ragionamento che ho fatto con Corrado Assenza) sembra di vedere tanti pezzi di lamiera, qualcosa di asettico anziché gastronomico, che ha perso ogni potere di stimolazione sensoriale. Mentre una foglia di radicchio è già un’opera d’arte. Non amo neppure l’eccessiva intellettualizzazione. L’analisi può precludere la poesia e il viaggio, la stessa differenza che passa fra ascoltare e sentire, una danza e un ballo. A rischio è la possibilità stessa di emozionare”.
La si potrebbe chiamare provocazione comfort ed è il filo nascosto del menu. “Nel nostro focus c’è sicuramente l’Italia. Perché parlare di cucina italiana significa rispondere di mille contaminazioni, è quasi un atto di libertà. La sua ricchezza è uno stimolo continuo. La grandezza di Aimo è stata quella di mettere in luce le filiere precedenti, in modo da rispettare i ruoli di chi lavora a più stretto contatto con la natura. Il farsi interprete di un lavoro a monte. Mi chiama il suo ‘figlio di legno’, per via di Pinocchio, e anche io, quando scelgo un nuovo artigiano, cerco la persona prima del prodotto, perché ogni ingrediente racconta quel che gli sta dietro”.
Il gusto è per l’understatement e la litote, che sconfina in sottilissima ironia: vedi, imperfettibile, il dotto appena scottato, finemente profumato al succo di limone e bergamotto, con cime di rapa all’aglio nero per l’amaro e ricci di mare in superficie. Un piatto “semplice”, teso fra terra e mare, grasso, sapido e amaro: “Come accostare 3 o 4 colori che stanno bene insieme. Non c’è ricerca, ma grande rispetto”.
Né si perde la vena naif. “Non amo sottolineare le tecniche dei piatti, non sono il fine ma un filo nascosto, che rischia di trattenere a terra l’ospite. Invece la nostra è una ricerca volta ad alleggerire e rendere sempre più eterea la preparazione, senza scapitarci in persistenza e in concretezza. Quindi una spinta verso l’alto, la tensione, un equilibrio sottile e la ricerca dell’armonia. Penso ai grassi e al momento in cui sono inseriti, ma anche alla pizza fritta senza lievito, che vuol dire capire la materia ed entrarci fino in fondo. Dettagli sottili che diventano esperienza”. Lo dimostra una rischiosissima milanese di animella di vitello di Michele Varvara, impanata al mais soffiato per alleggerire e servita con salse all’acqua di centrifugato di carciofo concentrato, aglio bianco e aglio nero, più profumi di arancia e lime, una traccia impercettibile di liquirizia per stimolare la salivazione grazie all’acido glicirettico, puntarelle all’arancia per un’espressione di stagione. In bocca: puff!
Quella di Alajmo infatti è una cucina ipertecnica, quasi paramolecolare, ma senza E di troppo (gli additivi di sintesi non sono ammessi). La tecnica funziona come una centina, che rende possibile la costruzione dell’arco: una volta compiuta la sua missione, scompare e non rientra nella percezione dell’opera finita, eppure ha rappresentato un passaggio obbligato e imprescindibile, un elemento necessario a erigere l’edificio del piatto.
“Il Tortello in brodo di sedano rapa al bergamotto, per esempio, strizza l’occhio a Niko e alle sue espressioni assolute. È una concentrazione incredibile di sedano rapa, che raggiunge naturalmente una texture gelatinosa, grazie agli amidi. Il ripieno è l’espressione solida della parte liquida, quindi di fatto non ci sono contrasti, se non nelle consistenze e nelle profumazioni leggere di bergamotto e carolea, oliva nera infornata, semisconosciuta, di cui sono innamorato. La frangiamo noi nell’imminenza e in sospensione porta un contrasto amaro sottile, un’elevazione”.
Suona etnico anche lo Spaghettone aglio, olio e peperoncino con crudo di tonno e cime di rapa, proposto prima del dolce. Piatto primordiale, gustativamente travolgente, che ironizza sul cliché dello spaghetto al tonno (ma non solo). “C’è un gioco sottile di tracce, due tipi di aglio, fermentato e non, semi misti che vanno a enfatizzare una sensazione molto sottile di zenzero, miso, peperoncino e un dialogo di vegetali invernali. Tanti ingredienti, spesso nascosti, cha marciano in due direzioni: una molto fresca, l’altra invernale, opacizzante. Con il tonno che a me ricorda un battuto di pomodoro: lo potrei chiamare un pomodoro di mare”.
Ma il finale è tutto per il Gioccolato 2019, uno dei dessert più complessi della cucina italiana, fosse solo per l’arcobaleno delle sue temperature di servizio, presentato su uno specchio dopo un bigliettino nella stagnola mimetica, che mette sulle tracce dell’Illusione, titolo del piatto che sta per in-lusio, ovvero ingresso nel gioco. L’invito a ripercorrere in profondità il pasto precedente, articolato in vari livelli di lettura come un testo dantesco. “L’idea è quella di non fermarsi alla prima immagine, superare il preconcetto, cercare di parlare di altro. Nello specchio alla fine ognuno legge la sua immagine insieme a quella del cibo: la vera risposta è andare oltre, ritrovarsi in quel che si fa”. Locari serio et studiosissime ludere, come sempre alle Calandre, dove scoppietta dell’ironia. In ordine sparso ci sono 18 pezzi, fra cui un coltello da passare sulla lingua, perché a tavola occorre fiducia, una caramella al pino mugo cristallizzata su un cucchiaino da caffè, l’acciuga al cioccolato che sembra un candito sulla lenza con il pesce, due bicchierini che “si respingono come il gatto e il topo”, simili ma distanti, pieni di Cocalandre, Coca-Cola della casa a base di 30 essenze, e rabarbaro, infine un filo interdentale effetto After Eight.
Le fotografie sono di Lido Vannucchi
Indirizzo
Ristorante Le CalandreVia Liguria n 1 – 35030 Sarmeola di Rubano (PD)
Tel. +39 049 630303
Mail info@alajmo.it
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