Il sapore di un’isola che si racconta: Bali sorprende fra lusso, gemme gastronomiche locali e ospitalità cucita sul singolo viaggiatore.
In copertina: W Hotel
Dal riso sacro dei villaggi alle visioni sostenibili del futuristico hotel Potato Head, Bali è un’isola che ti accoglie con il profumo delle spezie prima ancora che con il sorriso della sua gente. È l’“isola degli dèi”, certo, ma anche l’isola dei sapori. Ogni pasto è un rito, ogni piatto un racconto che intreccia cultura, spiritualità e comunità. Qui il cibo non è solo nutrimento: è offerta, è memoria, è celebrazione.



Il gusto come rituale, dunque, al mattino i mercati di Ubud si colorano di peperoncini rossi, citronella fresca, cocco appena grattugiato. Le donne avvolte nei sarong preparano i canang sari – cestini intrecciati di palma con riso e fiori – che verranno deposti come dono agli dèi. Lo stesso riso che poco dopo diventerà accompagnamento di piatti identitari come il bebek betutu, l’anatra cotta lentamente in foglie di banano, o il babi guling, maialino da latte arrostito con erbe fresche. Persino il più semplice sate lilit, spiedino di carne speziata arrotolato su un bastoncino di bambù, racconta la sacralità del gesto di cucinare.

Prima tappa: Seminyak, dal W Hotel al Desa Potato Head
Si parta da Seminyak, la vetrina cosmopolita. Perché se Ubud è meditazione, Seminyak è energia pura. È la Bali delle insegne colorate, dei cocktail bar e dei ristoranti che parlano tutte le lingue del mondo. Qui, tra il profumo del mare e il suono della musica lounge, si rincorrono tavole come il messicano Motel Mexicola, il raffinato Mauri dello chef Maurizio Bombini o la steakhouse FIRE all’interno del W Hotel.



Eppure, se c’è un luogo che più di ogni altro segna il ritmo della nuova Bali, e riesce a riassumerne l’anima dell’isola, questo è il Desa Potato Head, l’anima creativa dell’isola. Entrare al Potato Head non significa semplicemente varcare la soglia di un beach club: è entrare in un villaggio creativo che ridefinisce cosa può essere un’esperienza di ospitalità. Non a caso è l’unica insegna balinese presente nella classifica The World’s 50 Best Hotels.


Fondato da Ronald Akili con il motto “Good Times Do Good”, il Potato Head è insieme hotel, ristorante, centro culturale e hub artistico. Camere dal design sostenibile si affiancano a installazioni d’arte, studi di registrazione, una biblioteca, concept store e naturalmente spazi gastronomici che raccontano, ciascuno a modo suo, l’identità dell’isola. Il cuore resta il Potato Head Beach Club, con la sua piscina a sfioro e la vista mozzafiato sull’oceano. Al tramonto, è qui che l’isola intera sembra ritrovarsi: famiglie, creativi, viaggiatori e balinesi si mescolano sorseggiando cocktail che sanno di agrumi locali e spezie. Ma il Potato Head è molto più di questo.

Ogni ristorante è una tappa di un viaggio sensoriale: Ijen propone una cucina di mare a impatto zero, con pesce pescato localmente e cucinato nel rispetto dell’ambiente, Tanaman porta il fine dining su un terreno inedito: quello plant-based, con piatti visionari che trasformano ortaggi e piante in esperienze multisensoriali, Kaum è un ponte con la tradizione, un modo di riscoprire ricette indonesiane reinterpretate con cura e rispetto, Dome è l’avanguardia pura, dove la creatività incontra i vini naturali e i confini della cucina vengono spinti oltre, infine c’è il Sunset Park, rooftop bar sospeso sull’Oceano Indiano: cocktail che intrecciano sapori, memoria e territorio, firmati dal bar manager balinese Bina Nuraga. Ogni sorso è una dichiarazione d’amore all’isola, un invito a guardarla dall’alto, mentre il sole sprofonda nel mare.

Potato Head non è un luogo da visitare, è a tutti gli effetti un luogo da vivere. È un microcosmo in cui Bali si racconta attraverso il cibo, il design e la musica, e dove la sostenibilità smette di essere concetto astratto per diventare gesto quotidiano. E poi ancora non si può dire di aver visitato Bali senza aver conosciuto un pò Ubud, imprescindibile, perché è qui la spiritualità che nutre.

Alla scoperta di Ubud, fra K Club e Bvlgari
Lasciata la frenesia di Seminyak, Ubud accoglie con i suoi silenzi e le risaie che brillano al sole. Si incontrano cucine che parlano di benessere e natura: dal Warung Sopa con il suo curry di jackfruit al vegano Alchemy, fino all’esperienza “farm-to-table” del ristorante Akar all’interno del K Club, che porta in tavola ingredienti biologici raccolti in loco. Ubud è il cuore spirituale dell’isola e lo si percepisce anche nei piatti: ogni boccone è semplice, ma racconta una connessione profonda con la terra. Imperdibile infine la zona di Uluwatu dove molti dicono di andare per l’”abbraccio dell’oceano”.



All’estremo sud, tra scogliere a picco e onde cavalcate dai surfisti, la scena gastronomica diventa più diretta ma non meno emozionante. Dai smoothie bowl del Cashew Tree al pesce alla griglia del Sunday’s Beach Club, tutto profuma di sale e libertà. Il lusso si sublima poi al Bvlgari Resort, dove lo chef Niko Romito guida una cucina capace di fondere identità italiana e ingredienti balinesi in un percorso intimo e raffinato, sospeso tra cielo e oceano.



Bali è un mosaico di esperienze culinarie: street food servito su banchetti fumanti, brunch cosmopoliti in riva al mare, cene stellate nella giungla. Ma se c’è un luogo che oggi riesce a riassumere l’anima dell’isola, questo è senza dubbio il Potato Head. Qui ogni tramonto è un rito collettivo, ogni piatto un atto di creatività e sostenibilità, ogni cocktail un racconto di memoria e territorio. In un’epoca in cui viaggiare significa anche interrogarsi sul nostro impatto, il Potato Head dimostra che divertimento e consapevolezza possono convivere. E forse è proprio questo il sapore più autentico di Bali: un’isola che non smette mai di reinventarsi, che sa stupire dal primo morso di riso speziato in un warung di strada fino al brindisi sofisticato al Sunset Park. Un’isola che ti insegna che mangiare bene significa anche vivere meglio.
