Quarto appuntamento con lo Joselito Lab, questa volta in compagnia dello chef Seiji Yamamoto che nel suo Ryugin di Tokyo
La Storia
La Storia dello Joselito Lab
Un diktat dell’alta cucina negli ultimi anni prevede che quando un cuoco si trovi a maneggiare una eccellente materia prima, ogni suo gesto debba essere calcolato per sporcarla il meno possibile preservandone le caratteristiche originali. Ai grandi chef viene concessa più licenza di sperimentare, a patto però che il piatto finale riesca poi a raccontare il gusto di partenza aggiungendo qualcosa che giustifichi la tecnica e gli altri ingredienti con cui si è intervenuti.
Nella prima edizione del Lab a inizio 2013 venne chiesto a Ferran Adrià di lavorare un anno con l’intero catalogo Joselito per cavarne idee mai viste prime, e i risultati furono clamorose riletture in pieno stile El Bulli. Poi toccò a Massimiliano Alajmo nel 2014 e a Johnny Boer, olandese con tre stelle Michelin per il meraviglioso ristorante De Librije, dare seguito al progetto nel 2015. Quest’anno Jose Gomez ha deciso di abbattere un ulteriore tabù e mettere le sue carni (provenienti da maiali liberi di scorrazzare in spazi di 1 o 2 ettari CIASCUNO) nelle mani di un cuoco che per cultura non avrebbe certo l’abitudine di cucinare alcunché di simile: Seiji Yamamoto del Nihonryori RyuGin di Tokyo.
La cucina giapponese ruota per gran parte intorno all’idea di levità e calorie contenute, pertanto va da sé che l’utilizzo del maiale sia limitato (se si eccettuano golose intromissioni come il “tonkatsu”, trasposizione orientale della nostra cotoletta, o come la pancia in lunga cottura resa nota in Italia da Priyan Wicky tramite un omaggio al suo maestro Kaneki). Seiji Yamamoto era quindi titubante quando Jose Gomez gli ha raccontato del progetto, ma alla fine ha accettato:
“Non pensavo nemmeno potesse esistere qualcosa con tale gusto e una simile componente grassa. Per molti versi è più vicina al nostro manzo Wagyu che a un normale maiale, ed è da questo ragionamento che sono partito per la creazione dei piatti”.
I Piatti
Il filetto finisce così abbinato a riccio di mare e shiso prima di venire avvolto in un uramaki da intingere in purée di edamame e pepe Manganji, per un dar vita a un rotolo di sushi che non assomiglia a nessun altro.
La zuppa Owan (tipica della cucina Kaiseki di cui Yamamoto è grande e rispettatissimo portavoce, benché sia uno fra gli interpreti più sovversivi e non tradizionalisti) viene considerata dallo chef il supporto ideale per una polpetta che unisce vari parti del maiale (lonza, filetto e ventresca) in un boccone a rilascio lento che una volta deglutito diffonde ancora tutta la sua elegante intensità.
Gli esperimenti portati a compimento da Yamamoto sono più di venti in totale, e spaziano da quelli di chiara estrazione nipponica (come il sukiyaki, il kobujime o i noodles di tè verde serviti freddi con polvere di prosciutto a complemento), agli omaggi all’occidente con cui lo chef giapponese si è divertito a giocare (spiazzante, in questo senso, il “RyuGin Burger”, un hamburger di maiale in cui il pane viene sostituito dalle cappelle di due enormi funghi Matsutake, e all’arrivo in tavola è accompagnato da una pinta di birra bionda).