Settimana santa,
Domenica di Resurrezione, Colazione. Sulla tovaglia il tripudio delle uova sode dipinte, il tagliere per il capocollo e il salame novelli, cioccolato e vino rosso. Solo allora, secondo tradizione, si poteva affondare il coltello nell’oro delle pizze di Pasqua, asperse con l’acqua santa durante la benedizione pasquale o portate addirittura in chiesa il sabato santo. Una tradizione che continua un po’ in tutto il centro Italia, spesso usurpata dall’industria a causa di una ricetta lunga e complessa.
Oggi nessuno mette più l’impasto, composto di farina, uova, strutto e pecorino, a lievitare al caldo delle braci o sotto una coperta di lana; alcuni artigiani tuttavia hanno riesumato pratiche antiche e irrinunciabili, come la lievitazione naturale e la cottura nel forno a legna. Per esempio il ristorante Sale e Pepe di Orvieto:
“La mia interpretazione è meno aggressiva e asciutta del solito”, spiega Gianluca Pepe. “Aggiungo la groviera, il pepe bianco al posto di quello nero e la scorza di limone per allentare la presa del pecorino. Usare solo lievito naturale, per giunta senza zuccheri da frutta o miele, è stata una sfida. Per la cottura adoperiamo un forno di campagna enorme alimentato con legno di leccio”. Dà il meglio di sé con un salame dalla consistenza “barzotta”, cioè morbida in orvietano. Per esempio l’Urbevetus di Alfredo Angeli, ottenuto da carne di porco cinturello (cinta e suino bianco) allevato allo stato brado, sale di Cervia, pepe di Sarawak, aglio di Voghiera e niente più, eccetto un goccio di Aleatico Barberani. In abbinamento un calice di Alto Adige Schiava.
Reporter Gourmet – La redazione