Mangiare al ristorante è come stringere un contratto che vincola entrambe le parti: se il ristoratore risulta inadempiente, l’ospite non è tenuto a pagare. Ecco tutti i casi in cui si può magiare gratis secondo la legge.
La notizia
È l’incubo di tutti i ristoratori: il cliente che si alza e alla chetichella se ne va. In alcuni casi, tuttavia, anche colui che non paga ha ragione. A censirli è Carlos Arija Garcia su La Legge per Tutti, mettendo sull’avviso gli addetti ai lavori. Cuoco avvisato, cuoco salvato.La premessa, doverosa, è che mangiare al ristorante è come stringere un contratto che vincola entrambe le parti: se una delle due risulta inadempiente, anche l’altra viene sgravata dai vincoli. Il contratto in questione ha per oggetto la somministrazione di cibi e bevande e la fruizione di un servizio in cambio di un corrispettivo in denaro. Ma ogni contratto per risultare valido presuppone l’esistenza di una trattativa, che in questo caso assume le sembianze di un menu, ovvero di una lista delle vivande corredata dai prezzi. In sua assenza, il cliente è autorizzato ad alzare i tacchi col portafoglio pieno. Non solo: neppure le informazioni sul prezzo del coperto e sull’eventuale presenza di alimenti congelati possono mancare. Solo su queste basi al momento dell’ordine il contratto (che tecnicamente si definisce bilaterale, consensuale, a titolo oneroso e a prestazione corrispettiva) risulta mutuamente accettato, quindi vincolante.
La fattispecie è esplicitamente riconosciuta dal Regio Decreto numero 635 del 1940, tuttora in vigore, che all’articolo 180 obbliga gli esercenti a esporre all’esterno del locale un menu con i prezzi e il costo del coperto. La sanzione può arrivare a 308 euro, ma il cliente potrebbe ben decidere di non onorare il proprio debito, di fronte a un ristoratore inadempiente. Rischio che può correre anche chi affidandosi a una lavagna, non precisi il prezzo delle bevande né lo comunichi su richiesta. Si pensi anche alla classica nevicata di tartufo bianco, che può moltiplicare le cifre del conto.
Le cose non vanno diversamente qualora il ristoratore presenti in lista un piatto diverso da quello che poi sarà venduto, solitamente impiegando ingredienti meno pregiati. Anche in questo caso il vincolo del contratto si dissolve a causa di quella che la legge definisce una “frode in commercio”. Può essere una cotoletta alla milanese preparata con carne di maiale anziché di vitello, oppure un piatto di pesce dove la specie non è quella vantata, ma un parente povero. Si pensi infine ai casi in cui gli ingredienti non sono freschi, ma surgelati. Stesso discorso per l’evenienza in cui, dietro beneplacito del cliente, il piatto o la bevanda siano variati, senza comunicare l’eventuale aumento di prezzo.
Anche le falle del servizio possono giustificare la mancata corresponsione del conto, ma devono essere particolarmente eclatanti. Che so, un insetto nella minestra o una stoviglia lercia. Ultimo caso, per concludere. Al momento di pagare il conto, il cliente tira fuori la carta di credito o il bancomat e scopre che non vengono accettati. Dal momento che l’esercente è obbligato per legge ad avere un POS, il cliente, che non può in alcun modo essere trattenuto, pena il reato di sequestro di persona, è libero di andarsene, ma dovrà tornare per saldare a stretto giro, dopo aver eventualmente denunciato l’irregolarità alle autorità competenti.
Fonte: laleggepertutti.it
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