Tristellato a Tokyo, lo chef recentemente premiato dai 50 Best Asia ha ripreso in mano i libri dell’università durante il lockdown, in mancanza di adrenalina da servizio, precisando e intensificando il suo impegno per la sostenibilità.
La storia
In un momento in cui l’impegno sconfina nel marketing, ci sono chef che non si improvvisano. Per esempio, Shinobu Namae, tristellato dal 2021 all’Effervescence di Tokyo (più la verde), insignito del premio Icon Award dagli Asia’s Fifty Best Restaurants 2023, che di fatto ha riversato in cucina conoscenze e consapevolezze di una vita precedente.Namae era infatti iscritto a una prestigiosa università giapponese, dove studiava politica dei paesi in via di sviluppo, quando ha iniziato a lavorare in un chiosco di pasta per sbarcare il lunario. L’esordio è stato da lavapiatti, poi con la “promozione” in cucina tutto è cambiato. “Tagliavo tre chili di cipolle e cinque chili di aglio al giorno. La mia curiosità si è accesa. Mi sentivo un privilegiato a tenere in mano un coltello al posto della spugna”.
In testa, tuttavia, aveva la cucina italiana, era anzi innamorato dell’Italia, al punto da voler vivere come un italiano, nonostante non avesse connessioni con il paese. “Ero fortemente prevenuto sulla cucina francese”, racconta. Gli sembrava troppo complicata e pretenziosa, tanto da iniziare a lavorare in un ristorante italiano a Tokyo e poi in uno fusion, che lo spedì in missione a New York. È stato là, in una libreria specializzata, che è letteralmente inciampato in un libro che gli ha cambiato la vita: Essential Cuisine di Michel Bras. “Era molto genuino e onesto verso gli ingredienti. Lasciava loro le sembianze naturali: pomodori a forma di pomodori, melanzane a forma di melanzana e questo mi piaceva moltissimo”.
Proprio in quel momento Bras stava aprendo a Hokkaido e quando Namae fece la sua prova, immerso nelle bellezze naturali, si convinse in fretta che quello fosse il posto giusto per lui. Nel giro di tre anni era sous-chef, passando davanti a colleghi ben più blasonati. “Ero un foglio bianco senza segni. Adoravo lo chef e ho assorbito tutto. Il mio sentimento verso quella cucina era probabilmente il più forte in brigata”. Dopo cinque anni, tuttavia, decise di cercare ancora “un’altra arma”, passando al Fat Duck di Heston Blumenthal, altro autodidatta e apripista.
L’Effervescence ha aperto nel 2010, con quello che oggi Namae definisce un mix “strano e ridicolo” di foraging e additivi. Nel tempo la cucina ha poi virato verso la Francia, anche se gli ingredienti sono quasi esclusivamente giapponesi, con l’eccezione dei tartufi e dei funghi matsutake del Bhutan; quale signature una rapa sottovuoto spadellata al burro. Insieme ai premi, tuttavia, negli anni sono riaffiorati i retaggi della sua formazione, tanto che durante il lockdown, in astinenza da adrenalina, ha ripreso i libri in mano. E a breve uscirà la sua tesi di dottorato sul valore della ristorazione, in cui ha intervistato un manipolo di colleghi eccellenti.
“Il mondo del fine dining è una comunità piccolissima, che comprenderà il 3 o il 5% dei privilegiati. Ma vorrei mettere il suo sapere al servizio della comunità”. Da qui lo studio delle politiche agricole, della biologia marina e della biodiversità, le battaglie contro la desertificazione marina e la deforestazione del Giappone. Fra le sue attività, c’è quella con le scolaresche, volta a sensibilizzare le famiglie. L’anno scorso poi Namae ha tenuto un discorso alle Nazioni Unite su come rivitalizzare le acque costiere.
Fonte: theworldsfiftybest.com
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