Dal mondo dell’arte a quello dei fornelli, Pierluigi Antonucci è tornato nella sua Popoli, paese d’entroterra abruzzese in provincia di Pescara, per trasformare un luogo abbandonato in ristorante. La storia e i piatti di Don Evandro.
Don Evandro
La storia
Sono passati solo pochi anni da quando Pierluigi Antonucci, arrivando da tutt’altro mondo, ha deciso di cominciare la sua seconda vita nel segno della cucina. Si è sempre dedicato all’arte, in particolar modo e con successo alla pittura. È stato il suo percorso principale cominciato nell’Accademia di Belle Arti de L’Aquila e poi a Milano, dove ha partecipato e vissuto la scena artistica meneghina e nazionale. In tarda età, si fa per dire visto che siamo a quota quaranta stagioni, l’Antonucci ha deciso di reinventarsi e buttarsi di testa (ma anche di stomaco) in un’altra dimensione sensoriale, dove oltre la sensibilità del gesto e della visuale conta quella palatale, la cucina.
E così, tornato nella sua Popoli, paese d’entroterra abruzzese in provincia di Pescara, sono cominciati i lavori per trasformare un luogo abbandonato in un ristorante. Tutto questo però non sarebbe lo stesso senza la presenza complementare di Eugenia Antonucci a gestire la sala e a far da padrona di casa, compagna con lo stesso cognome di Pierluigi, un segno o semplicemente la realtà di un paese del Centro Italia.
Fatto sta che l’amore verso la cucina che il novello cuoco ha sempre fatto suo tramite mamma Andreina e nonna Dora, lo ha convinto a lasciare definitivamente l’alienante Milano per dedicare anima e corpo alla loro nuova vita: il ristorante Don Evandro, nome del nonno e colonna di una famiglia di pescatori di gamberi (in zona è, ma soprattutto era, una tradizione) a cui è stato dedicato il nome di questo luogo autentico e accogliente. Al suo fianco la donna dalla “bellezza medioevale” come lui la definisce, Eugenia ha conseguito la sua laurea in mediazione linguistica ma la passione per il viaggio e l’amore per la natura, unite all’incontro con Pierluigi, l’hanno stregata e avvicinata al mondo della ristorazione che oggi approccia con umiltà, serietà e sorriso.
Dunque, coppia formata, storia alle spalle e ristorante pronto, nel 2018 i due ragazzi sono partiti con il loro spartito e oggi propongono una cucina interessante perché non definibile, il risultato di piaceri propri e tante prove, sicuramente un percorso (a 75€ per 8 passaggi) dove il sapore non viene mai meno, il racconto è sempre presente, dove compaiono quelle sbavature che contribuiscono ad aumentare l’interesse e il dettaglio, dove manca però ancora un po’ di sicurezza e spinta. Tempo al tempo.
I piatti
Salmerino crudo, sedano rapa, topinambur, un pizzico di rafano, caviale di luccio e acetosella, ecco, non direste di certo che il ragazzo sia alle prime armi. C’è poi il carciofo ripieno un tantino diverso dal tradizionale, con pane croccante, aglio nero (di Sulmona) fermentato, una punta di alice e il gambo stesso, riduzione di carciofo, di grande godibilità e armonia sul quale lo chef ha promesso di aumentarne la profondità per renderlo ancor più profondo.
Capellini, sedano rapa e lardo, piacevole ma non memorabile al contrario dell’ameno tortello con ricotta e gamberi di fiume dove si incontrano due piatti tipici: “La fumarola” (pasta lunga alla chitarra e gambero) e il raviolo dolce con uvetta servito con sugo classico e glassa di gambero.
Applausi per la linguina burro e camino, accogliente, affumicata, persistente e tanto golosa. Arriva il brodo di bosco: unione di funghi, nota affumicata di tè, sedano rapa e cappelletti di parmigiano serviti in tazza a riprodurre l’idea di coccola che dona il brodo con la pastina, confortevole. Si chiude con l’agnello del visionario pastore colto Nunzio Marcelli de La Porta dei Parchi, grande materia prima, servito a mo’ di arrosticino.
Lasciato il pennello e impugnato il coltello, l’artista è rimasto tale ma ai fornelli e non dietro una tela. “Non avevo idea di quale ristorante avrei aperto, di certo non qualcosa di fine dining. Ho cominciato da un corso di cucina a Bologna, qualcosa di molto amatoriale: volevo un ristorante e probabilmente non avrei fatto io il cuoco, ma poi ho capito che avrei dovuto vivere l’avventura in prima persona. Pian piano ho capito come funzionano le comande, una linea di cucina, tutto è stato un azzardo, lo è ancora ma io sono fatto così. Non avevo ideali nel mondo gastronomico, sono venuti solo dopo, io non sapevo nulla di cucina; ho studiato e continuo a studiare per imparare, sbagliando tanto e imparando”.
Tanta audacia nello spirito di Antonucci, giustamente premiata, traballante come lo spirito di un artista sensibile e colto. L’arte torna sempre, però, e lui è affascinato da Tognazzi, dalla convivialità e dalla sperimentazione che l’attore magico portava in scena e dietro le quinte. “Per me la cucina è convivialità ma anche tanto racconto; Tognazzi metteva in tavola piatti al limite del mangiabile, ma era artistico. Ecco, io mi ispiro a lui più che ad un cuoco. Certo, la filosofia di Niko Romito è immensa e non a caso nella sala del Reale compaiono le opere di Spalletti, due animi sensibili e alti che comunicano. L’arte era e rimane il mio primo amore, è una dipendenza, oggi la vivo in altro modo”, conclude sorridendo Pierluigi.
Viva l’audacia, l’azzardo, l’arte della prova, via la cucina italiana e viva e la provincia. Onore al merito e agli occhi di una giovane coppia che ci sta provando: da Don Evandro si sta bene e vale la visita ripetuta, male che vada un giorno finirà tutto in una seconda scena della “Grande Abbuffata” -e anche nel caso, gli Antonucci avranno vinto. Lo penserebbe pure lo chef Ugo Tognazzi.
Foto: @Andrea Straccini
Indirizzo
Don Evandro
Via Beato Nunzio Sulprizio, 11, 65026 Popoli PE
Tel: 3888876858
Sito Web
Email: donevandrobistrot@gmail.com