“Il cambiamento fa parte del nostro DNA; se si arrestasse, smetteremmo di essere noi stessi. Ma le critiche fanno male. Per questo ci siamo disconnessi per un po’, in modo da concentrarci su ogni tavolo, facendo degli ospiti i nostri ambasciatori”. Daniel Humm racconta la svolta vegana e le nuove sfide di Eleven Madison Park: “Da noi si paga l’esperienza”.
La notizia
Sono stati un rollercoaster, gli ultimi anni per Daniel Humm. Prima miglior cuoco del mondo per The World’s 50 Best, poi sull’orlo del fallimento durante la pandemia, impegnato nel sociale con l’organizzazione non profit Rethink Food, convertito al vegetarianismo, stroncato dalla critica e poi celebrato quale primo tre stelle green del mondo… Oggi, in procinto di pubblicare un nuovo libro, aprire il bar Clemente e un altro ristorante nel West Village, descrive il momento in un’intervista rilasciata a theworlds50best.com.
“Il nostro settore sta cambiando in meglio”, esordisce parlando della svolta vegana, che definisce una questione di linguaggio e potere del cibo. “Come dico sempre, non possiamo essere perfetti a tutti i livelli, ma se ogni ristorante fa qualcosa di buono, tutti questi piccoli cambiamenti messi insieme ne possono innescare uno grande. Quando è stato il momento di riaprire il ristorante, per me era chiaro che dalla creatività dovevamo spostarci verso una cucina plant-based. Penso avessimo esaurito le possibili versioni di astice e anatra, non credo ci fosse altro da cercare. Per questo abbiamo sentito la responsabilità dovuta alla nostra visibilità nel settore”.
Il primo passo, racconta il grande chef, è stato assemblare una nuova dispensa, chiedendosi da dove potesse arrivare la cremosità, quali fossero il nuovo burro e il nuovo latte, i possibili equivalenti di brodi, fondi e salse. “Questo processo è stato molto interessante e per i primi otto mesi, abbiamo lentamente ricostruito la dispensa. Poi siamo passati alle ricette”.
Inizialmente, tuttavia, lo sforzo era quello di riprodurre i piatti del passato, senza proteine animali. “Ora sento che eravamo limitati, perché lavoravamo dentro il sistema di come dovrebbe apparire un pasto. Ma più abbiamo familiarizzato con questo nuovo percorso, più siamo diventati capaci di liberarci da queste regole. Abbiamo viaggiato molto in Giappone, India e Medio Oriente, dove i vegetali sono stati sempre celebrati in modi diversi. E abbiamo ritrovato la nostra stella polare”.
Humm racconta di mangiare ancora con piacere i piatti di carne o pesce dei colleghi, ma di avere adottato un’alimentazione prevalentemente plant-based, che ha orientato diversamente le sue voglie e la sua creatività; nonché di avere avviato una fattoria propria nell’Upstate New York. Di signature del nuovo corso, ancora non ne esistono. Il menu cambia ogni tre mesi, ma si delinea qualche costante: i semi di cipresso o tonburi, un ingrediente della cucina monastica zen; la lattuga sedano o i baby girasoli, serrati come carciofi.
Tutto bellissimo, ma l’inclusività? “Mi sono chiesto spesso cosa fosse il lusso. Per me non esiste una gerarchia fra gli ingredienti, sarebbe come se un pittore preferisse il rosso al verde o al blu. Le persone sono molto frenate su questo punto, anche quando si parla di prezzo. Si arenano su ciò che sono istintivamente disposte a pagare, ma è un ragionamento stupido, perché credo che quello che la gente ‘compra’ in ristoranti come il nostro sia un'esperienza. E di fatto la magia spesso entra in gioco quando si usa qualcosa di umile. Di solito sono i tagli più poveri, che alcuni non usano nemmeno, a incantare”.