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Al Ca' di Dio uno chef campano sta conquistando Venezia: Luigi Lionetti brilla da VERO

di:
Lucia Facchini
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Un menu che evoca scorci mediterranei col dettaglio del Tintoretto: l'alta cucina campana sguazza in Laguna grazie all'arrivo di Luigi Lionetti, già primo chef stellato caprese.

Venezia è un "caos calmo" dove sembra che tutti siano in transito, ma nessuno riesca a evitare di fermarsi per catturare con gli occhi quel flusso continuo di operosità destinato a scorrere parallelo a calli e campielli. In fondo sai già che d'un tratto ti perderai tra cartocci dorati di baccalà fritto e segnaletica fluo per raggiungere il Rialto, guadagnando il paradiso a suon di schiamazzi internazionali mentre aspetti di immortalare uno dei ponti più imponenti d'Italia. Odi et amo, la città sull'acqua rimane un'attraente contraddizione a cielo aperto. Ma una sua coerenza ce l'ha, e sta proprio nell'esser riuscita a creare uno zoccolo duro di gastronomia eterogenea oltre i sestrieri consumati dal turismo.

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Venezia impasta culture, assimila diversità e digerisce il nuovo con palese nonchalance. Così, accade che un raggio campano illumini un'insegna vista laguna; il meridione che attracca al porto per aggiungere un tassello al mosaico di evergreen locali. L'impresa la tenta Luigi Lionetti, primo chef stellato originario di Capri, dove ha esposto il macaron per quattro anni fino a mollare gli ormeggi verso i lidi nordici. Destinazione, Ca' di Dio, il flagship hotel del gruppo VRetreats nella Serenissima, tanto vicino a Piazza San Marco quanto defilato dall'orda barbarica dei roventi mesi estivi.

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Ci arrivi quasi davanti -chioma al vento- con un battello o un taxi boat; ti interroghi sulla facciata apparentemente basica che invoglia a entrare per squarciare la cortina di mistero edilizio; ci trovi, sin dalla hall, lo zampino irriverente di Patricia Urquiola, sorta di Sibilla del design che stavolta è riuscita a trasformare un ex ricovero per pellegrini col miraggio della Terrasanta (sì, questa era la vocazione originaria della struttura, restaurata 500 anni fa da Jacopo Sansovino) in un 5 stelle architettonicamente peculiare per la Riva degli Schiavoni, su cui s'affaccia discreto celando interni inattesi.

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Qui, in poche settimane di rodaggio, Lionetti pare aver imbandito una tavola non meno promettente, portando da VERO -fine dining ritagliato in un quieto angolo d'albergo per ospitare pochi coperti, ma buoni- un concept che svecchia la solita miscela di ritualità gourmand emulsionata fuori dal tempo e dallo spazio.

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Obiettivo, dirti che sei a Venezia senza dirti che sei in Campania: il font gentile del menu è uno scorcio caprese col dettaglio del Tintoretto, l'incontro di due ricettari opposti con la stessa impaginazione. Tradotto significa enfasi sul pesce e un ampio repertorio di paste "a mano libera", più l'approccio global tipico dei centri portuali che si riflette a specchio nel piatto. 

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La differenza? "Ho un orto a portata di brigata", racconta lo chef, "perché amo restare in linea con la terra ovunque io sia: nei miei percorsi è sempre il gusto nitido delle primizie a far da spola tra una pietanza e l'altra". Ma le intuizioni viaggiano ad alta velocità da Sud a Nord, "quindi ho stipato in valigia diversi piatti-firma. Poi, magari, nel benvenuto, accosto i ravioli capresi a un profiterole di baccalà mantecato", per un aperitivo cross-regionale che instrada la mente e lo stomaco al viaggio.

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L'esito è curioso: unisce il guizzo mediterraneo e la robustezza veneta, il protagonismo del cereale (oltre ai primi, il servizio del pane sfiora trasversalmente tutte le espressioni del lievitato) e la riscossa del prodotto umile, capace di tener testa ai fondamentali di pregio. Qualcosa che forse mancava in città, e che ha subito destato l'interesse dei foodies in vedetta.

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L'hotel

A Lionetti va riconosciuta l'abilità di sapersi ambientare con naturalezza, ritagliando pian piano sulla carta all day long un proprio margine d'azione progressivo. Lo dimostra il buongiorno assortito effetto simposio, dove compaiono sfogliatelle ricce e veneziane con la crema, torte capresi e soffici pangoccioli, tramezzini autoctoni e toast intercontinentali. Senonché sui tavolini della corte interna, rinverdita da un giardino che espande i confini dell'ozio vacanziero, atterrano pure ricottine venete per imbiancare il pane caldo di forno, dando filo da torcere agli stagionati e i salumi di zona in una verticale proteica su misura.

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Sarà questa la scusa giusta per improvvisarsi turisti mattinieri? Sì, sappiatelo: probabilmente ne avrete bisogno. Le 57 suite e 9 camere d'hotel rappresentano, infatti, una sorta di prolungamento della fisionomia cittadina, grazie a cornici di legno, boiserie e tessuti decorati che richiamano alla mente l'evanescenza dell'urbanistica sospesa tra flutti e solidità.

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Così ti fermi di colpo ad ammirare il vetro che si spartisce la scena col ferro battuto; la tavolozza incentrata sul pastello, con brevi accenni terrosi in prossimità del mattone; i ghirigori eleganti e la linearità degli affacci con un'istantanea panoramica fra le migliori della repubblica marinara. Chi fosse stanco delle peregrinazioni (e relative file infinite) lungo le vie dei "must see" potrà, però, crogiolarsi ugualmente nel relax della Reading room al pianterreno o lasciarsi confortare dal carpaccio marinato con frutti rossi dell'Alchemia Bar, valido antidoto espresso contro la calura agostana, mentre all'imbrunire sfavilla il bancone dei cocktail, pronto a veder sfilare ben altre divagazioni alcoliche rispetto al consueto Bellini.

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Anyway, l'esperienza al Ca' di Dio rimarrà indistintamente quella del girovagare per una Venezia in scala ridotta, complici gli spazi intonati al mood -a tratti austero, a tratti estroverso- del circondario lagunare.

VERO: come si mangia nel fine dining interno con la cucina di Luigi Lionetti

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"Una delle cose più importanti è sapersi fermare al momento adatto, sapere quando stai dicendo tutto ciò che puoi dire". Tranquilli, non cederemo oltre al fascino delle citazioni, ma quella di Jon Fosse ci è parsa la premessa giusta per introdurre il pensiero dietro al rebirth di VERO. Sì, perché nei percorsi di Lionetti balza al palato un'impressione di misura diffusa: l'estro zen di chi ha imparato a fermarsi giusto lì, sul crinale del sapore, schivando facili eccessi da febbre di palcoscenico.

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Non a caso, i tasting proposti dal cuoco caprese -affiancato dal sous chef Gabriel Collazzo- sono volutamente inclusivi: Vero (4 portate a base vegetale), Arsenale (5 passaggi clou in equilibrio fra prodotto ittico e terrestre), e Incontro (7 atti di maggior struttura), cui si sommano le opzioni "smart" di due o tre portate liberamente componibili dall'ospite. Parentesi pairing, i limiti oggettivi di una cantina attualmente in itinere sono colmati dal talento di Fabio Santilli -su carta il Food and Beverage manager dell'insegna, nei fatti un abile interprete delle voglie inespresse del commensale di turno, dalla bollicina inedita al vino dolce rituale.

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Fin troppo eclettica, nella sua hit parade di impasti misti, la panificazione, si tratti di affondare i molari nel trancino di focaccia alle patate -con "tripla mousse nazionale" di bufala, pomodoro e basilico- di spezzare il ritmo della sequenza con un babà salato alle olive o di far la scarpetta pucciando un'ammiccante pagnottina al cioccolato nella salsa dei secondi. L'amuse bouche, invece, scandaglia un erbario a ciclo continuo.

Luigi Lionetti lievitato
 

"Ad esempio, con le piantine raccolte sul momento realizzo un'emulsione che funge da ripieno esplosivo per il bon bon di grano arso", spiega lo chef; il boost di oli essenziali a scuotere le papille dal torpore del digiuno. Oppure, la spinta della maggiorana nel ripieno dei ravioli capresi dalla doppia cottura (al vapore e al forno) potenzia il tipico topping esterno di pomodoro e basilico, spostando l'asse del bocconcino su un flavor decisamente vegetale. La tecnica che s'inchina alla natura, non viceversa.

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Il green deal prosegue nell'Insalata di stagione, starter spesso incentrato sul classico ritornello di foglie esteticamente perfette e aromaticamente deboli. Di tutta risposta, Lionetti ne fa un mix un po' liquido e un po' materico, a metà fra i sentori delle zuppe domestiche lasciate intiepidire e delle crudité sonoramente sgranocchiate a inizio pasto. Due ricordi in uno, agita e gusta. Nel nostro caso c'erano il cavolo bruciato a dar profondità e il croccante di porri a innescare mordenza; i lamponi lattofermentati per il bilanciamento acidulo e la mela al cumino per il finale refresh. Prossima serie? Niente spoiler, a svelarla sarà il raccolto. Punto e a capo, col Bon Bon di gamberi chiudi gli occhi e generi in pochi secondi un fermo immagine costiero: sei praticamente all'estremo opposto dello Stivale.

Luigi Lionetti BonBon
 

Al centro un brillocco edibile di gamberi di Mazara del Vallo, caviale e mandorla, con la purea di frutta secca che da un lato riprende l'avvolgenza del crostaceo, dall'altro accorcia magicamente lo strascico di salinità residua. L'amaro sottile del fondo di olive di Nocellara e acqua di pomodoro chiama a raccolta il Mediterraneo, il limone candito lo celebra in chiusura. Quando il signature non è autopromozione, ma rispetto di un'ecosistema intero. Si ritorna alla base assaporando l'Animella da Nord a Sud, stacchetto carnivoro in cui però risalta nuovamente l'ortaggio- leggi: "friarielli veraci"- scelto ad hoc per attenuare con una piacevole pungenza l'ematicità delle interiora. 

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Di rara limpidezza il Risotto Riserva San Massimo, limone, burrata e scampi, impostato su una partitura di note verdi grazie all'aggiunta di alghe e capperi. Quindi ti arrivano al rallenty la goduria lattosa, il doppio agrume che ringalluzzisce la mandibola (sottoforma di brodo assoluto per la cottura e scorzette grattugiate in cima) e una sferzata di sapidità tale da giustificare il piatto tirato a lucido nonostante la porzione generosa. 

Luigi Lionetti risotti limoni
 

Più pop e diretti i Cappelletti di Parmigiano Reggiano Vacche Rosse, dove il triumvirato di tartufo, caviale ed astice ammanta la pasta di una spola preziosa, nonché particolarmente lunga nel ritorno umami. Uno slot di cucchiaiate cangianti -dal sottobosco al fondale, sino alla campagna- porta di fatto l'acquolina a rilanciare l'interesse per le corse successive.

Luigi Lionetti cappelletti di parmigiano vacche rosse
 

Fra i secondi resta in testa l'Agnello del Montello con crema di aglio nero e Pak choi, reso vivace dall'arancia amara che dirotta il fondo comfort su sfumature lievemente abrasive. Come trasformare un taglio emblematico dell'uso casalingo in un epilogo osé, che giunge in tavola con un finto atterraggio per riprendere subito quota. E proprio l'arancia segna di nuovo in porta, andando a profumare la quenelle di gelato disposta sopra al nostro dessert con caffè, nocciola e spuma di riso: la pastry chef Alessia Petruzzo è tra le poche che hanno compreso come accendere i fuochi d'artificio dopo 2 ore di cena. 

Luigi Lionetti Caffe arancia e nocciola
 

Contatti

Ca' di Dio- VERO

Riva Ca' di Dio, 2183, 30122 Venezia VE

Telefono: 041 098 0238

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