La cucina pop di Davide Oldani alza il sipario sulla stagione 2013-2014: un terremoto gentile, anche con il portafogli del cliente.
La Storia
Lo stile Pop di Davide Oldani
Essere un uomo vivente e un artista postumo: la ricetta di vita di Jean Cocteau sembrerebbe essere sibilata sotto la toque di Davide Oldani, se solo il successo non lo avesse baciato con uno schiocco sonoro e il trillo ininterrotto del telefono per le prenotazioni.

Perché lo chef milanese è arrivato prima di tutto e di tutti, quando il neologismo “bistronomia” non aveva ancora schiantato l’uno contro l’altro due format ostili della ristorazione, costretti a una convivenza forzata dalla crisi economica e dall’arroccamento eburneo delle grandi maison. Orfane della loro forma di vita senza domande di adozione in attesa del timbro, magari per l’estero a casa del magnate di turno.

La bistronomia tuttavia è un’altra cosa: un gioco di sponda metropolitano e cosmopolita, i cui prodromi datano già gli anni ’90, dilagato nel nuovo millennio sulla spinta di ricette tanto contemporanee che nuove from scratch. Mentre l’esperimento D’O, iniziato nel 2003 (il 28 ottobre si festeggeranno i 10 anni) e mai deragliato dai binari originali, ammassa i muscoli della conoscenza culinaria e il sistema nervoso delle grandi maison sullo scheletro di una tradizione poderosa. Professionalizzata all’estremo, tellurizzata dalla creatività e dalla multidisciplinarità.

Il suo decalogo spazia a tutto campo dal design alla filosofia di vita, dalla nutriceutica al marketing, con un’enfasi particolare sul punto 3, bandiera della rivoluzione Oldani: “Ogni attività deve avere un profitto, ma i prezzi devono essere corretti”. Non più di una quarantina di euro, massimo 75 per il menu di pesce, che viene proposto solo saltuariamente perché non del tutto omogeneo al concept (come la giornata del tartufo, che rispolvera la gloria del soufflé, ulteriormente alleggerito).

I costi si limano ovunque possibile, dal revival degli ingredienti poveri, che si tratti di pesce azzurro, quinto quarto o cipolle, al loro utilizzo per intero, minimizzando gli scarti; dal servizio di sala affidato da tempi non sospetti ai cuochi, capaci come nessuno di illustrare i piatti, alla location senza troppe pretese. Mai però sul lavoro di cucina. Plusvalore nel senso marxiano del termine: qualsiasi portata ne contiene a iosa. Sapere e sudore che fanno la differenza rispetto a qualsiasi indirizzo concorrente.

Prima di applicarsi all’ergonomia delle posate, in cui ha messo a segno colpi da maestro, la creatività di Oldani si è concentrata sulla messa a punto di questa formula, tanto più sorprendente se si considera un curriculum, che certo non lo predisponeva a svolgimenti pauperisti. Già pupillo di Gualtiero Marchesi, che lo svezzò appena uscito dalla scuola alberghiera, poi toque pensante al fianco di Albert Roux del Gavroche di Londra, Alain Ducasse al Louis XV di Montecarlo e Pierre Hermé da Fauchon a Parigi, Oldani ha frequentato “l’università della cucina”, come ama definirla, laureandosi a pieni voti in un classicismo intramontabile (cosicché suona emblematico l’invito a esporre la case history del D’O ad Harvard il prossimo 15 novembre). Un Marchesi boy fra i più fedeli e originali, inquieti e creativi. San Pietro all’Olmo non sarà la ville Lumière, ma da allora è entrato nel tomtom dei gourmet.

C’è chi ha parlato di arte povera; lo stesso Oldani si definisce pop. Ma nella sua cucina mancano del tutto lo sghignazzo post-moderno e la strizzatina d’occhio al junk food. Troppa storia, troppa manualità, se è vero che il brand oramai è brevettato. Piuttosto a balenare è la Venere degli stracci di Pistoletto, icona di un classicismo ridotto a simulacro seriale di capolavori. Kitsch profuso per i giardini globali e redento dal bagno negli stracci quotidiani. Bucce di cipolle, schizzi di macelleria, gocce di fatica.

La legge infatti è quella del contrasto. Fra la location e la noblesse delle preparazioni (soprattutto nel comparto salse, fondi, nage e consommé - perché l’Acropoli della cucina è a Parigi), ma anche fra suggestioni lombarde e mediterranee (la cosiddetta “cucina verticale”), temperature calde e fredde, nella girandola inarrestabile dei gusti primari. È il caso rispettivamente del risotto marchesiano con pane e Marsala e della cipolla caramellata façon Tatin con gelato di Parmigiano Reggiano, due classici ricorrenti in carta.

I Piatti
Ma la cucina del D’O sta emergendo sempre più dall’ombra del concetto, cono magnetico che in un primo momento aveva calamitato l’intera attenzione. Riaperti i battenti il 4 settembre, con il ripescaggio dei piatti estivi pre-ferie, esaminati con la consapevolezza del distacco e già predisposti per l’evoluzione del 2014, il 18 alzerà il sipario sul menu autunnale. Anch’esso instradato sulle guide giuste alla fine della scorsa stagione: c’è solo da riprendere in mano i fili che pendono e proseguire il disegno della tela. Un modus operandi che misura l’evoluzione della sensibilità, regala adrenalina e soprattutto consente di non uscire dai binari della stagionalità compiendo le proprie sperimentazioni (come tutti fanno) su ingredienti deludenti e costosi.
È il caso della spugna salata con i fichi, antipasto che gioca al mascheramento avanguardista. Perché mai come in questo caso le apparenze ingannano: niente bicchierini al sifone nel microonde, ma una pâte génoise salata che viene montata a mano, divisa con una purea di fichi e cotta in forno, presentata a mo’ di panettoncino e servita con una vellulata. Virtuosismo che suona come una rivincita sul futuro passato degli spagnolismi ubiqui. Oppure della cassoeula dai gusti nitidi e fedeli, destrutturata ma non snaturata, trasfigurata anzi con lessico giustamente marchesiano grazie al gusto nitido del cavolo verza, al maiale leggero, alle chips evanescenti di cotenna.

Nel complesso la tendenza premia la frutta e la verdura, con l’acceleratore più calcato nei piatti compiutamente creativi come quello che lega cachi, acciughe e caffè. Forse perché i 10 anni regalano self-confidence e un pizzico di voglia di osare; forse perché anche gli aficionados nel frattempo si sono evoluti (ma il tasso di creatività segue la tipologia della clientela, le cui preferenze sono in larga parte appuntate su un database, anche per evitare ripetizioni alle eventuali visite future).

Il capitolo prezzi non delude le aspettative: in 10 anni la crescita è stata appena del 4%, in controtendenza su panieri istat che non hanno mai smesso di piangere. I più curiosi possono optare per un menu da 6 portate nuove di zecca a 45 euro; in alternativa ci sono 4 portate a 32 e una carta che lascia spaziare dai 38 ai 45. “Per me è la terza rivoluzione, dopo la nouvelle cuisine e la destrutturazione: la svolta pop, cioè popolare, accessibile, adatta ai tempi, di cui anche altrove si comincia a parlare. Perché è al tempo stesso innovativa, tradizionale e creativa; parla a tutti in quanto semplifica nel senso buono e soprattutto sa fare i conti col mercato”.
Indirizzo
Ristorante D’OVia Magenta 18 - 20010 San Pietro all'Olmo - Cornaredo (MI)