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Cuoca dell’anno: Chiara Pavan sotto i riflettori dell’alta cucina al Venissa

di:
Marco Colognese
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chiara pavan

Un’ interessante conversazione con la cuoca dell’anno per la Guida ai Ristoranti d’Italia de L’Espresso: la filosofia di Chiara Pavan e i fornelli del Venissa a Mazzorbo.

La Storia

Chiara Pavan è una ragazza che sorride e sa sorridere di sé. Colta, senza peli sulla lingua, è uno spirito libero che si è fatto volontariamente rinchiudere tra le pareti di un mondo-paradosso come la cucina, dove la libertà può assumere forme d’espressione pressoché illimitate. Così come senza limiti appaiono certi orizzonti che si osservano dalla Laguna a nord di Venezia. Ed è in un luogo magico come Venissa a Mazzorbo che Chiara è arrivata un paio d’anni fa, scovata come resident chef dal talento di Francesco Brutto su incarico del deus ex machina Matteo Bisol. Ecco che poi, in un arco di tempo piuttosto breve, la Guida ai Ristoranti d’Italia de L’Espresso l’ha incoronata “cuoca dell’anno”.


“Posso essere del tutto sincera? Non solo non me l’aspettavo proprio per niente ma tuttora dico: perché l’hanno fatto, sono matti? In realtà all’inizio le mie reazioni non sono state esattamente di gioia. Sono stata male, per un mese mi sono sentita angosciata e mi chiedevo: perché hanno fatto questo? Io sono un po’ insicura, mi sembra talmente normale il lavoro che facciamo, quindi ci saranno tanti altri che lo fanno come noi. E va bene, poi chiaramente ho elaborato la notizia e alla fine sono stata contenta di essere stata premiata.” Da qui la spinta a un utile pensiero: “In realtà quando mi hanno intervistata e ho dovuto parlare di quello che realizziamo qui, diciamo che mi è servito per capire ancora meglio il nostro contesto e questo mi ha aiutato a dare una forma, a riflettere”. Allo stesso tempo finire sotto i riflettori porta sempre con sé una certa responsabilità: “Questa cosa mi ha messo addosso un po’ di pressione così ho deciso di non andare in stage questo inverno. L’anno scorso ero stata all’Osteria Francescana, quest’anno avevo preso contatti per andare al Noma ma ho deciso di studiare: io sono una secchiona, ho due lauree di cui una in filosofia politica.”


A questo proposito è interessante quel che Chiara ci racconta del nuovo laboratorio concepito con Francesco Brutto: “Dopo il premio ho voluto fermarmi un attimo a ragionare sui nuovi piatti da fare, c’era bisogno di riprendere le redini della situazione da un punto di vista creativo anche se poi la creatività è un gioco di squadra tra me e Francesco. Intendo dire che abbiamo deciso di capire bene come fare squadra, mettendo a disposizione le skills di entrambi, così lavoriamo sistematicamente in questo modo. Io elaboro idee, lui cerca di concretizzare e così via. E lui spesso si inventa una cosa geniale. Ti faccio un esempio, ieri avevamo deciso di lavorare su un semifreddo al mais, io avevo fatto dell’acqua di pomodoro fermentato da un po’ di tempo, assaggia questa cosa e fa “sa di acqua di pomodoro fermentato”, se ne va e dopo un po’ torna con un cocktail in abbinamento a questo semifreddo con tequila, rhum e la stessa acqua. Funziona un po’ così, si assaggia e si corregge”. Qualcosa che sta tra il brainstorming e lo studio scientifico, a quanto pare: “Abbiamo preso un enorme foglio di carta scrivendoci sopra tutto ciò che secondo noi rappresenta la cucina da un punto di vista di tecniche, ingredienti, metodi di cottura, sensazioni gustative, texture. Un enorme cartellone: da lì abbiamo iniziato a pensare a che cosa vorremmo fare di nuovo, a quel che ci manca, al tipo di sapori nuovi ci piacerebbe uscissero, alle strumentazioni nuove che ci servono. Così abbiamo comprato un po’ di attrezzature come un rotavapor, la clessidra per infusioni, le camere per fare il koji. Insomma leggiamo, studiamo e lavoriamo.”


La storia di questa ragazza, classe 1985, è abbastanza atipica: “Sono entrata in un ristorante a Pisa, dove ho studiato, a chiedere se c’era bisogno di una cameriera e mi hanno detto ‘no, però se vuoi cerchiamo un aiuto cuoco’ e da lì mi ha preso bene. Avevo 19 anni e inizialmente non lo vedevo certo come il lavoro della mia vita ma come un mezzo per fare un po’ di soldi e pagarmi dei viaggi. Poi a un certo punto ho iniziato a viverci, ho fatto delle stagioni in Grecia. Mi sono laureata ma non ho mai lavorato per gli studi che ho fatto. Non penso che essere cuoca sia una vocazione, è stata proprio una scelta pragmatica.” Per Chiara filosofia e cucina non hanno una vera e propria relazione diretta, anche se: “è chiaro che con la mia formazione io abbia un modo di ragionare un po’ storico-filosofico però questa è una cosa che non so quanto praticamente possa incidere in cucina. Mi sarebbe piaciuto studiare storia della gastronomia, leggo molto. La filosofia ti serve perché pensando a all’epistemologia, allo studio dei concetti ti dà modo di ragionare, è un modo di relativizzare quello che fai, di capire che un momento storico non è assoluto. Ti interroghi tanto su come nasce un tipo di tecnica – ad esempio ora c’è questa moda delle fermentazioni che ovviamente bisogna saper fare e sono due anni che con Francesco fermentiamo - e mi rendo conto che è una cosa del tutto temporanea ma allo stesso tempo ha una storia, quindi cerchi di capire ragionando su quanto ancora possa durare, mentre fai paragoni con altri stili di cucina che sono stati anch’essi di moda e poi sono passati.” E continua sul tema dell’etica: Sulle scelte etiche ho un’idea precisa di come stiamo e come invece dovremmo stare al mondo, il mio lavoro spesso mi crea dei problemi come per esempio l’uso degli esseri viventi. Avere una consapevolezza ti aiuta comunque a muoverti in un certo modo.”


Quando le chiedi a che cosa pensa mentre concepisce un piatto ideale ottieni una risposta netta, inequivocabile: “Al cliente! Ognuno deve essere contento, penso al gusto soprattutto, si può trattare di piacevolezza, di sorpresa, può essere una scossa ma dev’essere tutto orientato all’ospite. A un certo punto quando ho deciso di fare questo lavoro non mi vedevo in un ristorante ‘stellato’, ma in un posto chiassoso con piatti che guardassero esclusivamente al piacere del cliente. Poi è andata così e ne sono soddisfatta, ma non è escluso che in futuro io apra un posto del genere con un po’ più di interazione e semplicità. Quello che mi piace davvero è che chi mangia sia felice, esattamente ciò che voglio io quando esco.”


Perché Chiara in fondo è una persona semplice, nell’accezione più nobile del termine: ”Lavorando in cucina non rinuncerei mai alla familiarità, cerco sempre rapporti calorosi e un po’ di complicità, penso sia un bisogno comune, perché sono tante le ore che si passano ai fornelli. Potendo, alla struttura della brigata rinuncerei. Più di qualsiasi altro ingrediente, è molto relativo a dove sei e cosa fai.” Un’ultima domanda, in apparenza banale ma non così scontata, è quella che riguarda il mito della mano femminile in cucina, oltre a cosa significhi essere donna e lavorare in un ambiente tipicamente maschile. Per Chiara l’idea, profondamente condivisa da chi scrive, che si possa percepire in un piatto il sesso di chi l’ha concepito e realizzato, è un’enorme stupidaggine. Poi: “Sull’essere donna e lavorare in cucina tanti mi chiedono com’è: è come essere uomo (sorride) solo che magari c’è una questione: se devi pensare di avere figli è più complicato. Con una certa categoria di rappresentanti del sesso maschile a volte ho dei problemi: sono i ventenni arroganti che pensano di avere a che fare con una madre e quindi si scontrano, quella è l’unico punto su cui devo dire si riscontrano delle tensioni, con Francesco non si permetterebbero mai di avere certi atteggiamenti e con me li hanno. Comunque ho lavorato tanto con donne, quindi sono sempre stata piuttosto bene.”

Fotografie di Lido Vannucchi

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