Una stella Michelin, 10 coperti, niente carta e un solo menu per tutti i commensali: Unforgettable è il laboratorio avanguardista di Christian Mandura, che a Torino traduce il concetto di “esperienza” uscendo fuori dai soliti schemi italici.
Unforgettable Experience
La storia
Torino è bellissima, da esplorare in tutti i suoi angoli. Flemmatica e affascinante nel suo essere sabauda, elegante e rilassata: al contrario di altre grandi città, non ha bisogno di mostrare i muscoli della frenesia. Gastronomicamente parlando è solida e soprattutto offre una varietà di proposte molto articolata, dalla ‘piola’ alla cucina d’avanguardia. E certamente di avanguardia, anche se più nell’idea che sul fronte del gusto, si può parlare quando si approccia Unforgettable, che non a caso si ritrova accanto nel nome Experience, concetto che Christian Mandura ha saputo tradurre in formula uscendo dai tipici schemi italici.
Classe 1990, la mamma gestiva il ristorante Geranio di Chieri dove lui cresce: tappe principali della sua carriera sono state la locanda Frà Fiusch di Revigliasco (To), il Noma a Copenhagen e Del Cambio a Torino, mondi tanto differenti quanto stimolanti dai quali apprendere. La conversione che porterà al nuovo modello parte nel locale di famiglia sette anni fa e nel 2019 arriva a compimento il progetto torinese.
“Un nome – ricorda Christian – sicuramente non azzeccatissimo almeno all’inizio, perché si dovrebbe aspettare che te lo dicano i clienti, ma è arrivato da una signora innamorata della mia cucina al Geranio, la quale la prima volta l’ha definita indimenticabile. La stessa signora ha poi finanziato il progetto in questo spazio di sua proprietà”. Così, continua Mandura, “Unforgettable nasce dall’esigenza di servire il vegetale al centro in un contesto non classico, che rappresentasse la mia idea di prendersi cura dell’ospite tutto il tempo, un format realmente sostenibile e senza una divisione tra sala e cucina.”
Il ristorante
Di fatto nel 2021 arriva subito la stella Michelin, a confermare l’apertura della rossa a punti di vista differenti e - in questo caso - coraggiosi: “Ce l’abbiamo fatta in tre e per i due mesi successivi siamo stati completamente pieni, ma lo puoi fare soltanto se tutti si occupano di tutto.” E così è, in questo posto per conto suo, dove i dieci commensali cenano al bancone, non c’è carta e il menu è unico per tutti, così come l’orario di inizio.
Ed è buffo perché si tratta di un crescendo parzialmente progettato, perché da un lato ci sono la sequenza di piatti e qualche divertente provocazione, dall’altro queste dieci persone che non necessariamente si conoscono e iniziano a interagire tra loro man mano che l’atmosfera si scalda, grazie anche alla musica, non propriamente classica, che si interrompe ogni volta che qualcuno interviene nella descrizione di ciò che viene servito. Qualcuno non è scritto a caso, perché qui la squadra è indifferenziata e ciascun membro non ha una funzione specifica, quindi ognuno cucina, serve, descrive (e lava) i piatti.
Stefano Mancinelli e Deborah Cucco sono a fianco di Christian, Jacopo Restagno invece è il giovane sommelier laureato in ingegneria biomedica e appassionato di vini naturali, il quale dopo il master a Pollenzo ha lavorato sia in cantina per capire quello che accade prima che il vino arrivi in bottiglia, sia in sala da Ana Roš a Caporetto.
Prosegue Christian: “Ci siamo ispirati all’estero mantenendo un mood superitaliano nella cucina: non pensi di trovarti in Italia ma ti accorgi che tutto qui è italiano.” E poi continua, descrivendo più nel dettaglio la sua idea di vegetale al centro, da non confondere con quello che ormai sembra diventato una specie di mainstream: “Si parla di futuro sostenibile e di vegetale assoluto, cosa che ho sempre combattuto. Il vegetale al centro è un’idea nostra che, per quanto semplice o banale possa apparire, costituisce una piccola rivoluzione ed è un claim che tutti ci riconoscono. Il punto è includere la proteina animale abbassandone la quantità e rendendo il consumo sostenibile da un punto di vista ambientale ed economico. Non avrebbe alcun senso riconvertire totalmente al vegetale, significherebbe non avere rispetto della nostra storia e della nostra cultura.
Quindi conviene parlare di quantità ridotte e necessarie, ridisegnando con equilibrio, perché un cambiamento è meglio sia radicato che radicale. Quindi sì ad anatra e maiale, ma con meno quantità e più qualità, creando un ciclo sostenibile. E vorremmo che l’ospite si ponesse una domanda, oltre a stare bene e divertirsi passando ore felici. Dietro un piatto e un luogo ci sono una filosofia e un retropensiero importanti: se riusciamo a far sorgere questa domanda, vuol dire che abbiamo fatto un buon lavoro, perché è comprensibile a tutti.” Christian non manca di pragmatismo: “Ci rapportiamo con 10 persone ogni sera, se non arriva l’idea va bene lo stesso, ma quello che facciamo deve avere un senso.
Se servissi un piatto soltanto per stupire, oggi sarebbe anche troppo facile. Al Geranio la cucina prevedeva 16 portate, anche estreme, ma a un certo punto mi sono chiesto ‘perché fai questo?’ e così ho capito che quello che faccio deve aver senso e gratificare anche me, permettermi di dire qualcosa. E pensare che - continua Mandura, - la riflessione è nata da un cliente, il quale relativamente a un piatto durante una cena mi ha detto ‘per carità, è buonissimo però potevo essere qui a Chieri ma anche a Miami, Chicago, insomma in qualunque parte del mondo’. E in effetti un americano che viene qui in Piemonte fa fatica a trovare una buona terrina di coniglio. Ecco che allora io devo fare la tradizione, ma ridefinendone l’equilibrio, con le proteine animali che diventano contorno.”
Christian ha un punto di vista interessante anche sul fronte di un’altra sostenibilità, quella economica, che dev’essere alla base di un’attività di ristorazione: “Se per fare un piatto ci vogliono dieci persone, quello non è un piatto ma un fallimento, almeno da un punto di vista economico. Io ci ho lavorato, dentro posti così, ma quando mi sono ritrovato a dover far quadrare i miei conti mi sono reso conto che si trattava di roba non fattibile: nella vita l’esempio è la più alta forma di insegnamento, ma quello era un esempio sbagliato e i ragazzi così prendono le sportellate.”
I piatti
Da Unforgettable si dà finalmente senso a un altro di quei termini che infastidiscono per quanto se ne abusa, perché l’esperienza c’è, eccome. A partire dalla vicinanza di tutti e dieci i commensali, i quali all’inizio con gli snack staranno nel salottino accanto al bancone e poi si accomoderanno, prendendo confidenza prima con la formula e poi tra loro. A turno i cuochi, nessuno dei quali ha la tradizionale uniforme ma è vestito in modo informale, spiegano i piatti nel dettaglio. Il cono di luce sul piatto va naturalmente a illuminare il vegetale. I ragazzi raccontano come nessun ingrediente contenga sale aggiunto e i piatti vengono definiti della tradizione.
Certo l’affermazione va presa, soprattutto esteticamente con la necessaria apertura mentale, ma il percorso che si farà è decisamente una sequenza di prove (riuscite) di grande gusto. Come, ad esempio, nel bellissimo gioco sulle zucchine e gamberi, in cui la zucchina va in essiccatore per sei ore, la superficie forata con uno stuzzicadenti quasi fosse un cotechino per poi essere cotta in un’emulsione di burro per 20 minuti: il grasso penetra nella verdura e la rende cremosa. Lo step successivo è la ricostruzione, in cui si usa prezzemolo e parte della buccia pelata precedentemente. In entrambi i casi si essiccano e si ottengono delle polveri: il prezzemolo dà una sensazione tra il minerale e lo iodato, mentre la buccia una connotazione più amara e tostata a bilanciare. Il contorno è rappresentato dai gamberi di Portonovo (riviera adriatica), serviti crudi, sconditi e con il tocco del limone disidratato.
È poi la volta di un piatto della tradizione piemontese come peperoni e acciughe, con i primi carbonizzati sul fuoco vivo; sbucciati, vanno sottovuoto con centrifuga di peperone crudo; vengono poi affumicati per circa due ore e conditi con acqua di scolo fatta ridurre finché non si ottiene un fondo. Al centro del piatto c’è solo peperone puro, a parte invece le acciughe al verde con alla base dell’aglio nero: il classico prezzemolo sostituito dal coriandolo per una nota asiatica; questo piatto viene servito con pane da lievito madre con il quale si è invitati a fare scarpetta.
Buonissimi i porcini con i tajarin, notare la sequenza perché l’esperienza non è data dalla pasta ma dai funghi, raccolti e lavorati in stagione, tagliati sottili ed essiccati. Si ottiene una polvere con cui si cosparge la base del piatto e si completa con un estratto degli stessi porcini e olio al prezzemolo. I tajarin vengono scolati in acqua e ghiaccio e poi asciugati e conditi con olio di nocciola a dare sentori tostati. Un omaggio a un maestro assoluto come Gualtiero Marchesi e uno stimolo a riportarci quand’eravamo bambini e ci si poteva sporcare senza grandi patemi. Sì, perché la pasta va presa con le mani, raccolta e utilizzata per fare scarpetta. E qui è previsto, per chi lo desidera, il bis. Dita unte, tanto divertimento e altrettanto gusto. Ancora, ecco la lattuga brasata che assume una consistenza quasi carnosa, servita con il succulento piccione cotto all’unilaterale e il fondo delle sue carcasse.
E poi la parmigiana di melanzane, non esattamente quello che ci si aspetterebbe da un piatto culto della tradizione popolare: si lavora in iperconcentrazione sulla verdura che viene cotta in forno per un’ora e mezza a 190°C e schiacciata sotto una pressa per una notte intera. L’acqua residua, raccolta e rimessa in pentola, viene trattata come un fondo di carne. “Concentriamo gli zuccheri in maniera aggressiva e quando viene concentrata in questa maniera, l’acqua sviluppa quelli che definiamo sentori secondari, con una piccantezza intensa ma totalmente naturale: perché non sarà persistente e tenderà a svanire. Sono 10 chili di melanzane per 10 persone.” Si completa con salsa concentrata di pomodoro e il formaggio viene sostituito con la mandorla dolce che rende il piatto interamente vegetale. Piccolo particolare, si tratta di una pietanza che va leccata dal piatto.
Notevole anche la crème brûlée nella versione Unforgettable, che prevede i fiori di camomilla al posto della vaniglia e la cottura in pentola anziché in forno, “per non sviluppare quella sensazione di uovo cotto che capita spesso” e le suadenti note erbacee del fiore intensificate dalla forza del levistico. Tutto questo in attesa di tornare da Paradigma, con il suo concetto quasi ribaltato, al piano di sopra: unico tavolo con quattro posti a sedere e un solo animale servito in tutte le sue parti, nessuna esclusa, con le verdure (selvatiche, naturalmente) di contorno. Unico vero difetto di entrambi i format? Serve pazienza per trovare posto.
INDIRIZZO
Unforgettable Experience
Via Lorenzo Valerio, 5/B, Turin, Italy
info@unforgettablexperience.info
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