Il problema fondamentale legato al dopo Covid-19 sarà fare numeri. Bisogna tornare al ristorante, ma serve tornarci bene: “un ristorante ha bisogno di un minimo tra il 50 e il 70% di occupazione, a seconda delle caratteristiche, per non perdere soldi”.
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“Il problema non è aprire, ma riempire”: è la frase simbolo di un’intervista lunga e interessante, quella che ha visto Salvador Sostres dialogare su ABC con Ferran Adrià sul prossimo futuro della ristorazione in Spagna. Il cuoco più famoso di tutti i tempi dà una sua visione analitica da un punto di vista economico: “Gli chef devono capire che sono anche imprenditori”, sostiene. Come sarà tornare al ristorante per lui è impossibile da sapere, almeno fino a quando non saranno note date, condizioni di riapertura e soprattutto quando potranno tornare i turisti stranieri. Di certo, dice “possiamo pensare a diversi scenari, con tutte le variabili immaginabili ed essere pronti. Non dobbiamo restare passivi”. Quindi bisogna tornare al ristorante, ma serve tornarci bene: “un ristorante ha bisogno di un minimo tra il 50 e il 70% di occupazione, a seconda delle caratteristiche, per non perdere soldi”.
Il settore dell’accoglienza sarà nel caos fino a dicembre e il miglior auspicio per il 2021 è di contenere le perdite e sperare nel maggior numero di riaperture dopo la crisi. In Spagna ci sono 315.000 alberghi e ognuno ha un progetto diverso, perciò è difficile generalizzare, al di là dei provvedimenti di sostegno e del fatto che si dovrà mantenere il sistema ERTE (acronimo che sta per expedientes de regulación temporal de empleo, un meccanismo già esistente che permette temporaneamente alle imprese di sospendere i contratti di lavoro o di ridurre le giornate lavorative, a causa di difficoltà economiche, tecniche e organizzative che mettano a rischio la sostenibilità dell’impresa) fino a dicembre. Ci sono 70.000 ristoranti, tra questi circa 3.500 «gastronomici», che fatturano tra gli 8 e i 10 miliardi di euro e senza turismo non potranno funzionare. Banchetti, matrimoni, battesimi e grandi eventi avranno inoltre un recupero molto più lento e complesso. Negli ultimi tre anni uno dei progetti più importanti della fondazione di El Bulli con il patrocinio di aziende come Telefonica, Lavazza, Caixabank e Grifols è stato quello di contribuire a migliorare la gestione dell’attività di 3000 professionisti del settore. È un lavoro che si svolge in sordina, non molto conosciuto, ma fondamentale per quelle che sono di fatto piccole e medie imprese. La Fondazione farà in modo che i ristoranti non solo superino questo colpo, ma che possano apprendere metodi di gestione che consentano loro di funzionare meglio di prima.
Perché, sostiene Adrià, “un ristorante è un'impresa. Il cuore di un'azienda deve essere l'azienda stessa, a prescindere da ciò che realizza. E un ristorante è azienda a tutti gli effetti, è un business. Il proprietario non può essere solo solo un cuoco o un maître, perché è un imprenditore” In Spagna il 22% delle microimprese e delle PMI non dura più di due anni. Il 50% non supera i cinque, ma questo accadeva già prima del Covid: cinque ristoranti su dieci non superavano i cinque anni: “lo dico per contestualizzare il dramma che stiamo vivendo. Non c'è bisogno di riflessioni profonde per capire come saranno i ristoranti dopo il Covid, bisogna conoscere com'erano prima. È quindi indispensabile ottimizzare la gestione”. E Ferran continua: “ci saranno due strade: quella di cercare di sopravvivere, e per questa sarà fondamentale un buon modello di business; e poi l'innovazione, percorso che fa cambiare i paradigmi di qualsiasi attività economica. Per dirla in termini di pandemia: se non ci sono ricerca e innovazione, non c'è vaccino”. Quindi, prosegue Adrià, “è necessario un business plan a cinque anni. La prima cosa è vendere, quindi fare un prodotto che la gente vuole. Poi bisogna sapere che guadagno si vuole realizzare. A partire da una certa qualità, i profitti di solito non superano il 10% del fatturato al lordo delle imposte, il che significa un risultato del 5% netto a cui va sottratto lo stipendio del proprietario. Ecco perché per un ristorante che fattura un milione di euro il proprietario ha un utile di circa 50.000 netti e uno stipendio di non più di 40.000 lordi. In totale sono circa 90.000 euro all'anno, questo per i ristoranti molto ben gestiti. Ultimamente, a causa della rigidità imposta da orari non flessibili, i profitti erano scesi al 5-7% al lordo delle imposte”. E prosegue: “la struttura economica di un ristorante gastronomico è più o meno questa: 35% materie prime, 35% personale, 20% spese generali. Nelle marisquerías e nei ristoranti «di prodotto» l’incidenza della materia è solo un po’ maggiore. Ma per quanto possa sembrare inverosimile, la maggior parte di questi ristoranti, e in generale delle piccole imprese, non hanno un vero bilancio né alcun tipo di controllo dei costi”.
Qual è allora la soluzione? A questa domanda Adrià risponde: “la soluzione è riaprire, tornare a lavorare sodo, vincere di nuovo. Non è così facile. Finora nessuno lo sta facendo, né gli italiani, né i francesi. Non è un problema spagnolo, è un problema mondiale. Ed è una situazione molto complessa: un conto per esempio è gestire la distanza tra i clienti, un altro, impossibile, è occuparsi di quella tra i cuochi. E le paratie in plexiglass, sono praticabili? E camerieri e cuochi con le mascherine? Ci sono cose che un ristorante non può fare per quanto appaia necessario. Ti immagini se ti chiedessero di fare l'ABC senza computer?”. Adrià sostiene ancora che sia necessario stabilire dei protocolli e andare avanti: “Nessuno oggi è in grado di dire come si possa aprire. E andremo più lenti di quanto potremmo perché i politici non vogliono correre altri rischi. Alcuni riusciranno a tornare anche presto, ma non tutti. E gli ERTE potranno essere più flessibili. Perché non puoi avere il ristorante a metà, o anche meno, e dover impiegare le stesse persone di quando eri pieno. Inoltre, la maggior parte dei ristoranti di alta cucina aveva un 60% di turismo estero. Come puoi fare se i turisti non ci sono? Se apri e hai solo quattro tavoli, dovrai richiudere. Il problema non è aprire, è riempire. E non è una questione di non essere ottimisti, è che sarà un caos, come lo era New York dopo l'11 settembre. Le aziende non faranno un banchetto, un evento, è un danno incalcolabile”. E prosegue: “se avessi ora dei ristoranti, il mio impulso sarebbe quello di aprirli, ma è tremendo il livello di disperazione che crea l'incertezza: un ristorante aperto può perdere più denaro di uno chiuso. Se l'occupazione media degli hotel di Barcellona è del 70% e senza turisti stranieri hai solo il 30%, che fai? Apri o non apri?” “Solo nel 2022 riprenderemo una certa normalità e se ci potrà essere un’accelerazione dipenderà molto anche da come avranno reagito i paesi che hanno gestito meglio la crisi e da ciò che potremo imparare da loro. Saranno un buon punto di riferimento per esempio i paesi nordici, la Germania, la Corea del Sud ma bisogna tener presente che il cammino sarà lungo e complicato. La notizia rassicurante? Sinceramente, credo che dal punto di vista di ciò che si aspettano i clienti, i ristoranti non cambieranno poi così tanto.” Un pensiero va poi ai ristoratori meno giovani: “emotivamente sarà molto complicato per i proprietari di una certa età. Io ora ho 57 anni: se avessi ancora il ristorante, ricominciare sarebbe molto difficile. Lo farei, certo, ma sarebbe difficile mantenere alto l’umore”. “Noi spagnoli siamo bravi, molto innovativi nel turismo, soprattutto nella fascia che non è quella di superlusso. Il turismo ci ha salvato dalla crisi del 2008, e anche questa volta potremo sicuramente recuperarlo. Coloro che criticavano tanto i turisti, ora scopriranno quanto sono importanti”.
E conclude: “Il futuro non lo conosciamo e l'unica cosa che possiamo fare è pensare a più scenari possibili. Ma ancora più che questo, quello che credo sia importante ora è sfruttare questa occasione di reset per analizzare ciò che abbiamo fatto negli ultimi 30 anni: tanto per le cose buone quanto per imparare dagli errori e migliorare ancora. Io sono ottimista, perché il capitale umano che ha fatto tutta questa rivoluzione aveva e ha molto talento. Inoltre, per le caratteristiche del nostro business, lo sforzo, la grande fatica, non è mai stata un'opzione, ma un obbligo. Il più grande dei nostri doveri. Ed è questo ciò che continueremo a fare”