Totalmente autodidatta la Klugmann, rabbiosamente istintivo -a tratti anarchico sull’ordinata quadrettatura marchesiana- Baronetto. Al Cambio è andato in scena un duetto degno delle migliori performance artistiche: ecco quali piatti ci hanno colpiti di più.
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Simili, ma anche profondamente diversi. Antonia Klugmann e Matteo Baronetto portano avanti cucine del tutto personali, che sono improvvisamente entrate in contatto al Cambio il 15 giugno nel corso di una cena a quattro mani. I punti di contatto non mancano, a cominciare dall’orto, su cui la Klugmann lavora da sempre e che di recente anche Baronetto ha acquisito.Non solo similitudini fra ingredienti, quindi, secondo la poetica di Baronetto, che da anni si dedica a decifrare il grande libro della natura, ma anche fra stili. Totalmente autodidatta la Klugmann, rabbiosamente istintivo, a tratti anarchico sull’ordinata quadrettatura marchesiana Baronetto. Il quale ha scelto la collega friulana al fine di celebrare un momento speciale: “Per questa serata, che rappresenta un momento di rinascita non solo per il ristorante, ma anche per tutti gli amici e colleghi del settore gastronomico, ho voluto farmi guidare dall’istinto. La prima persona a cui ho pensato è stata Antonia: una scelta emotiva, per le innate affinità che ci legano, e anche di sostanza, perché ho sempre ammirato il modo in cui si approccia al mondo della cucina”.
“È una cuoca di identità, una cuoca di pensiero che comunque sta cercando di intraprendere un cammino originale. Qualcosa di raro nel panorama generale, dove sembra quasi che la personalità sia diventata uno spauracchio, forse perché da qualche anno si cerca il comfort, manca un po’ di follia. Altra cosa è rischiare e dare modo di riflettere il giorno dopo, come Bob Noto quando mi ritelefonava. Mi ha colpito il lavoro che sta facendo sul fegato, molto particolare, e in generale come percepisce il vegetale. Nelle mie esperienze non ho mai fatto una cena con cuochi così concentrati su questo aspetto, ma è un interesse che sto coltivando sempre più, fino a centrarvi il piatto”.
E la Klugmann: “Questa è una delle poche occasioni in cui fino ad ora nella mia carriera ho condiviso la costruzione dei singoli piatti. La stima professionale e la fiducia reciproca sono essenziali perché questo possa accadere. Poter viaggiare di nuovo e ritrovarsi con un collega nella sua cucina è l’ennesimo regalo che il mio lavoro mi fa in un anno in cui l’isolamento fisico ha condizionato tutti noi. Ancora di più un momento di festa e di gioia condivisa.”
Sono stati diversi gli acuti del pasto, tutti frutto del confronto serrato fra i due. Piatto del giorno, senza esitazioni, i Ravioli di nespola, uova di trota affumicate, brodo di melanzana e formaggio Murianengo. Risalta per molteplici aspetti: il sorprendente gusto nuovo, la geniale testura a frattale della pasta ripiena, con le uova quasi croccanti che riecheggiano la sfoglia, ricostruendo un Bergese 2.0, il dialogo fra il piccante vegetale della melanzana, da cui viene estratto un umami al confine della soia, e quello del formaggio, che non viene utilizzato a fianco per staccare e ripulire, come di solito avviene con i side dishes, ma per sporcare, settare, scioccare il palato a mo’ di Sichuan bottom, secondo il commento di Andrea Grignaffini, che ha attribuito un sonoro venti ventesimi.
“È una commistione nata insieme. Il Piemonte è una terra di grandi formaggi, io stesso ho il carrello. La consuetudine è di servirli con marmellate o miele, io ho voluto mettere un raviolo di frutta al servizio di un grande formaggio, con la nota affumicata delle uova che si lega a un concetto di casearia e il piccante che stacca al palato”, ha commentato Baronetto.
Non si è trattato dell’unico paradosso: vedi il polline al naturale servito in predessert, che non innaffia come di consueto il palato con l’acidità, ma lo impasta liberando una freschezza diversa, di profumi e giovinezza. Nessuna paura del sale, usato per creare un limite nell’equilibrio, in virtù della sua capacità di incrociare le rette del gusto. “Un catalizzatore”. Succede nel delizioso appetizer di noce moscata e limone, esplosione di un flavour principle tutto italiano, come nel gabilo dove esalta un’altra speziatura, il muschiato della salvia. Il fegato macerato nel suo siero per 12 giorni e rapidamente cotto confit è il capolavoro di Antonia, prepotente come il formaggio che lo precede.
Ma risalta anche l’insalata ghiaccio, vecchio amore di Baronetto, condita con aglio, olio e peperoncino per esaltarne con il calore del condimento gli umori acidi e sapidi, gestendo il gusto profondo del vegetale senza tecniche da Nasa.
Foto: crediti Davide Dutto