Il ristorante Brado abbina carni di selvaggina con la birra artigianale, simulando lo scenario di un’accogliente baita montana. Un tempio della cacciagione senza eguali a Roma.
Brado
La storia
Trovare una baita di montagna a Furio Camillo, quartiere romano che non può certo essere paragonato ad un bosco di conifere, incuriosisce. Di sicuro non è una struttura in legno con i tetti spioventi e il comignolo fumante anche d’estate, per l’aria fresca, tagliente e pulita. Anzi per certi versi è l’opposto. Anche se il cuore di questo locale capitolino, inserito in un palazzo di cinque piani, più o meno uguale a quelli che sono intorno, è accogliente e rustico (bisognerà però intenderci su questo aggettivo), come appunto potrebbe esserlo una baita alpina. È il rifugio di tre fratelli, Cristian, Mirko e Manuel Catania, appassionati di caccia e di birre artigianali, che nel 2017 hanno deciso di trasformare in realtà le loro passioni. “Sognavamo di mangiare cacciagione più spesso di quanto potessimo fare, sorseggiando la birra artigianale che piace a noi. E così, pur occupandoci di altro, abbiamo deciso di lanciare il progetto di un ristorante dedicato alla selvaggina a due passi dal centro di Roma. Il nome non poteva che essere Brado”, rivela Cristian Catania.
Ecco come è nato uno dei locali più originali della Capitale e forse di tutto il Lazio, visto che non ce ne sono di simili nella Regione, dedicati alla cacciagione e al tempo stesso dal piglio giovanile. E qui c’è una prima riflessione da fare. Brado è un paradosso. La selvaggina non richiama certo l’idea di una cucina giovane, contemporanea, ariosa. Evoca piuttosto le lunghe cotture, i brasati, gli intingoli, gli stufati, i sughi di carne ricchi, densi e pastosi in bocca; accompagnati magari da vini di struttura in grado di asciugare le succulenze, come un tempo dicevano i maître della sommellerie. Un tipo di cucina non proprio à la page, secondo le attuali tendenze.
Sembrerebbe dunque poco appropriato aprire un tale ristorante, in una città eternamente distratta dalle mode del momento, dove gli imprenditori non possono mettere da parte la vanagloria del continuo rinnovamento, con format studiati a tavolino e capaci di strizzare l’occhio a target più o meno young adult. Brado, invece, nel farsi realtà non è sceso a compromessi (lo si vedrà anche nella descrizione del locale) e ha fatto centro senza saperlo, inseguendo un gusto e un sogno che si sono dimostrati più strategici del calcolo (forse perché sorti dalle regioni dell’inconscio). Lo ha fatto accostando alla cacciagione la birra artigianale. Un abbinamento a prima vista impensabile, senz’altro frutto di un gusto personale. Ma vincente, perché in fondo i molti stili di birra di cui oggi si dispone, stout, italian grape ale, goose e blanche, consentono di sintonizzarsi alla cucina di nicchia e dalla personalità precisa dello chef Simone Cacciotti, dimostrando che in certi casi il risultato della fermentazione brassicola vale quanto quella da uve.
Consentono, inoltre, gli stili artigianali sopra citati, di avvicinare un pubblico giovane ad un regime alimentare poco frequentato dalle nuove generazioni, nelle quali predomina la sostenibilità ambientale, il rispetto per la natura (e per gli animali), la cucina leggera, scarica, spesso vegetariana o vegana, ricca di fibre, povera di proteine. La birra però fa da testa di ponte per entrare in un territorio poco usuale, ben conosciuto e frequentato dai fratelli Catania, iniziati all'arte venatoria dal padre, e vogliosi di far partecipi di questo piacere i propri clienti. Eppure, questo da solo non spiega il successo del locale. Sarebbe troppo facile. I conti tornano solo se si fa attenzione alla cucina dello chef, grande amico dei titolari e a sua volta appassionato di caccia di selezione, che richiede un’abilitazione specifica per ogni animale cacciato.
Il ristorante
Aperto nel 2017, il ristorante è stato ideato e voluto secondo le intenzioni dei proprietari. “Tutto quello che è stato fatto qui lo abbiamo realizzato in proprio”, svela Cristian Catania. L’analisi degli arredi lo conferma. Il contrasto più evidente è al momento dell’arrivo, quando il locale appare in linea con gli standard della Capitale, presentando una bella e moderna porta a vetro a scorrimento automatico, ampie vetrate con vista sulle vie adiacenti ed eleganti sedute esterne. È difficile trovare un rifugio in quota così contemporaneo. Voglio dire, c’è come un disallineamento, un contrasto scomposto e non risolto tra modernità e voglia di far vivere un’atmosfera alpina in una strada della Capitale, dove il panorama circostante, fatto di lamiere, ringhiere, asfalto e tubolari al neon, entra comunque nello spazio del locale dalle ampie pareti.
L’ambiente interno nel suo insieme si presenta con pantoni scuri, dove predominano il grigio tortora, il verde abete e il legno delle pareti, che danno un senso di eleganza rurale. La sala contrasta in parte con le luci e il candore della cucina a vista, maiolicata e separata da ampie vetrate, la cui apprezzabile scelta denuda il lavoro di chef e brigata, costringendo la crew a operare nel rispetto delle norme igieniche e in armonia. Una volta dentro si notano i pesanti tavoli da bistrot in legno grezzo e ferro battuto, che si alternano a sedute alte da cocktail bar. Inoltre, è ancora il legno a caratterizzare il bancone del piccolo ma fornitissimo bar all’ingresso. La fattura e gli intagli artigianali di questi elementi rimandano inequivocabilmente alla montagna.
Il contrasto in parte persiste con il moderno e costoso impianto di birra artigianale dalle linee industrial che cerca comunque di integrarsi con le fattezze lignee del banco bar. “Su Roma è certamente il miglior impianto realizzato, non lo dico tanto per dire, ed è tutto nostro, non è frutto di accordi con i distributori. Noi, da clienti appassionati, abbiamo sempre voluto attaccare le spine che ci piacciono e interessano, senza essere costretti a prendere un prodotto, piuttosto che un altro”. L’impianto ha tre temperature di servizio, per adattarle alle diverse birre artigianali che vengono servite.
La mise en place è di una semplicità disarmante, quasi spartana, con una tovaglietta rotonda brandizzata che accoglie le posate. Accompagna quest’unico complemento del tavolo un sottobicchiere per la birra o il vino. In un sacchetto di carta vengono serviti il pane e la pizza fatta in casa. Evidentemente, il cuore del racconto gastronomico ha altre unità di misura. Ora la commistione di elementi e forme, il tanto di grezzo che c’è nelle 46 sedute interne con l’eleganza più fredda e rarefatta delle vetrate, degli esterni, delle parti metalliche della cappa a vista, è il dato che più avvicina Brado a una baita di montagna e lo mette in sintonia con la cucina. Lo avvicina, perché in fondo un rifugio spesso è una sovrapposizione di elementi. Non ha regolarità e unità di design (format è la parola che sintetizza il pensiero); e l’apprezzabile, familiare accoglienza è data da arredi arrivati in tempi diversi. Da Brado l’ambiente è il risultato di una summa di piaceri, e poco importa se siano stati armonizzati o meno da uno sforzo concettuale in un interior design. Ciò che conta è che questi piaceri trovino il favore generale.
Come dicevo sopra, per fare centro non basta presentare un accostamento inedito come la selvaggina e la birra artigianale - anche se è possibile scegliere vino in accompagnamento ai piatti. La forza di Brado è come viene presentato il piatto. Parola quindi allo chef. “Conosco Cristian Catania e suo fratello da molto tempo, sono cacciatore anche io, per cui il progetto mi è piaciuto fin da subito. Anche perché portare una materia prima pregiata come ad esempio può essere la carne di daino, abbattuto in caccia di selezione, è piuttosto raro a Roma. Diciamo che abbiamo voluto portare l’esperienza gastronomica di una baita di montagna nella Capitale, fondendola con il mio approccio personale di cucina, dove gli elementi che entrano nella composizione del piatto devono essere separati e distinti dalla carne, per lasciare al cliente la possibilità di gustarla in assoluto, visto che è il pezzo forte. È difficile fare male con questa materia prima; quindi, voglio esaltare l’animale che ha sacrificato la propria vita e che si trova nel piatto. È anche una forma di rispetto. La mia filosofia è essere il più semplice possibile”, sottolinea Simone Cacciotti. C’è una parte di vero in queste parole, anche se lo chef si nasconde dietro la modestia. Così raccontati, i suoi piatti sembrerebbero facili, quando in effetti non lo sono.
I piatti
La carne proposta, che spazia fra daino, cervo, germano reale da caccia selettiva o cinghiale e pecora allevati allo stato brado, necessita comunque di un lavoro di marinatura o di cottura che ne rispetti le caratteristiche; tanto più se gli impiattamenti devono dare l’opportunità dell’assaggio disgiunto da verdure, gel, creme o riduzioni varie, “che metto accanto nel piatto per creare vivacità e movimento”, dichiara Simone Cacciotti. I suoi piatti sono colorati, allegri, belli a vedersi, proporzionati nella struttura compositiva. E tutto produce gusto, anche una foglia di lattuga grigliata, apparentemente adagiata accanto alla carne solo per estetica. Invece no, la funzione è quella di dare una svolta al sapore primario della carne di selvaggina. Si possono quindi sperimentare gusti e accostamenti con i due o tre elementi che lo chef mette nel piatto, che possono essere il finto mosto, il cipollotto fritto, la salsa alle nocciole dei Monti Cimini, la maionese di larice, un’indivia alla piastra e via dicendo. Oppure gustare l’animale nel piatto nella semplicità della cottura.
“Io mi sono formato nei grandi hotel di via Veneto, all’Excelsior, al Bernini Bristol con Andrea Fusco, al Grand Hotel con Franco Madama. Sono poi passato da Aroma a Palazzo Manfredi e al Butterfly di Lucca. Ho iniziato come stagista dopo la scuola alberghiera e sono salito fino al diventare sous chef”. L’aver vissuto e l’essersi completato come chef nella cucina di fascia alta lo aiuta a piegare la tecnica al rispetto e alla cura della materia prima. Lo aiuta a far sembrare facili composizioni che celano alle spalle uno studio compositivo, come la Carne salata di selvaggina di stagione affumicata con legno di conifera e cavolfiori affumicati. Oppure la Tagliata di selvaggina di stagione alla griglia, finto mosto, cipollotto fritto e indivia arrostita.
Tagliata di selvaggina di stagione alla griglia, finto mosto, cipollotto fritto e indivia arrostita
Non sempre si lavora in cucina sugli stessi. Una settimana è possibile lavorare il daino, quella dopo il cervo. Sono carni provenienti da caccia selettiva. In pratica si preleva l’animale solo quando è necessario controllare la popolazione, senza procedere con abbattimenti indiscriminati che possono mettere a rischio le specie. Le carni inoltre hanno una frollatura di pochi giorni. “I tempi di frollatura possono andare da alcuni giorni fino a 50, 60 giorni in rarissimi casi (quasi sperimentali) in base alla grandezza dell’animale. Si sta facendo molta sperimentazione su questo fronte, trattandosi di una visione nuova di queste carni, che un tempo erano destinate solo a ragù e spezzatini al sugo. Nei nostri menù non ci sono animali che provengono da allevamenti a batteria”, aggiunge Cristian Catania.
Allo chef piace muoversi sui primi. “Mi è sempre piaciuto fare la pasta in casa e infatti da Brado tutta la pasta è fresca. Quando faccio la pasta mi sembra di stare a casa, insieme con mia nonna, la domenica, quando appunto ci divertivamo a cucinare insieme”. In menù ci sono poche tipologie. In genere uno gnocco, una pasta lunga e una pasta ripiena.
Notevoli le Tagliatelle verdi al battuto di pecora alla Callara e fonduta di pecorino di fossa, ma segnalo anche i Tortelli ripieni di selvaggina di stagione, burro alla cacciatora e salsa di pomodorini bruciati. Anche i secondi, però, attirano l’attenzione di Simone Cacciotti, perché il lavoro con la selvaggina è impegnativo.
"Non posso permettermi di sbagliare, perché le quantità sono quelle che sono. Non si dispone tutti i giorni di certa selvaggina" sottolinea lo chef. "Le chiavi fondamentali per ottenere delle carni di selvaggina gustose, delicate e morbide, sono, l’abbattimento selettivo che fa sì che l’animale muoia senza stress, senza adrenalina in corpo, né sofferenza; e la frollatura attenta delle carni. Carni “trattate bene” non necessitano di marinature, che sono procedimenti antichi che servivano ad ingentilire il sapore forte di animali mal conservati e trattati male sin dal momento dell’abbattimento. Per quanto riguarda la cottura delle carni di selvaggina, è un argomento estremamente ampio, si può generalizzare dicendo che vanno o scottate e servite al sangue, oppure stracotte, non ci sono vie di mezzo. Faccio un esempio, se cuocessimo più del dovuto una tagliata di capriolo, diventerebbe dura e ferrosa, quindi inservibile. Se invece quel pezzo di capriolo lo facessimo stracuocere per 3 ore, sarebbe buono come brasato". Tra i dessert la Cheescake con confettura di stagione o il Sottobosco invitano a chiudere in bellezza la serata.
Foto: Crediti Alberto Blasetti
Indirizzo
Brado
Via Amelia 42, 00181- Roma
Tel: 375 5140851
Sito Web
info@bradoroma.it