È “tornato a scuola” a Honk Kong ed ora guida la cucina di Guido da Costigliole, rinomata insegna della famiglia Alciati con 60 anni di storia alle spalle. In bocca al lupo a Fabio Sgrò, che già sorprende con piatti audaci.
Guido Da Costigliole
Il ristorante
Sono bastati pochi mesi alla Rocca di Arignano, dove Ugo Alciati era consulente per il rilancio della parte ristorativa, per far scattare la scintilla della fiducia. Evidentemente Fabio Sgrò era il cuoco giusto al momento giusto e Ugo, dovendo fronteggiare la dipartita del suo Executive Luca Zecchin, non ci ha pensato due volte. Dalla Rocca al Relais il passo è stato svelto. Anche perché per un cuoco nato e cresciuto in Piemonte, la chiamata da parte di “un’istituzione” come il ristorante Guido da Costigliole all’interno del Relais San Maurizio, prima stordisce e poi suona irresistibile.
“In Cina ho capito di non sapere niente”. Fabio Sgrò scopre subito le carte e non ha paura di confidare quanto il suo impatto con la cultura asiatica, con la cucina asiatica, con la sua brigata di maggioranza asiatica, abbia smontato il suo - ormai evaporato - fare da saputello e provocato un flusso di autocoscienza, sfociato in un ricomincio da capo. Qualcosa di tutt’altro che banale. Fabio, assieme alla moglie Sonia, ha trascorso quasi quattro anni ad Honk Kong, a guidare la cucina de La Piola, chiamato da Umberto Bombana - no introduction needed - proprietario di questo e diversi altri locali in terra asiatica.
Chiacchieriamo seduti a un grande tavolo rotondo da dodici posti. Dal soffitto pende una spettacolare installazione di Valerio Berruti, artista di Alba, che fa dell’innocenza, della tenerezza e della speranza la sua poetica e la sua opera omnia. Tratti essenziali, anche se marcati, raffigurazioni di bambini che guardano e si interrogano. La loro visione del mondo - in cui lo stupore e la scoperta non sono stati messi in solaio - pare essere la stessa di chef Sgrò che torna dall’altro mondo con gli occhi più spalancati di prima.
“A Honk Kong se prevale un atteggiamento da comandante, se succede che ti metti a gridare o a fare le schizzate in cucina, rischi di perdere tutti. Uno chef che conoscevo ha ripreso con toni molto accesi uno della brigata davanti a tutti…il giorno dopo non si è presentato nessuno e ha dovuto occuparsi da solo di tutto il servizio del pranzo. Quando mi è successo di riprendere un po’ più forte un cuoco della brigata ho notato che si sono girati tutti verso di me. Mi sono dato subito una regolata e ho capito che è molto meglio parlare faccia a faccia con ogni elemento della squadra, per crescere insieme. Se anche non hai dei fenomeni, la cosa importante è dare sempre stimoli e confrontarsi, chiedendogli anche banalmente, tu cosa ne pensi di questo piatto, così loro ti danno il 100% in cucina e anche il rispetto”.
Fabio ha fatto tesoro di questi insegnamenti. A maggior ragione con i datori di lavoro che la vita gli ha riservato attualmente. “Andrea, Ugo e Monica sono i migliori datori di lavoro che potessi avere. Ho libertà massima su tutto, non ho ingerenza, non mi mettono paletti, gestisco io ogni cosa. Loro mi dicono, prova, fallo pure. Mi hanno chiesto un’unica cosa, di mantenere il fornitore per il ripieno dei plin storici di Lidia - moglie di Guido. Ho addirittura modificato la pezzatura della carne, il procedimento, facendo una marinatura di una notte prima della cottura e anche il fornitore del loro vitello tonnato. Lavo i capperi nell’aceto, come si faceva nelle ricette antiche. Tutti questi cambiamenti, di un piatto storico della famiglia, li hanno accettati di buon grado e quando l’hanno assaggiato erano stracontenti”.
È un Piemonte nuovo? In parte sì, influenzato da tecniche di marinatura, da salse che Fabio ha imparato a gestire e replicare mentre era a Honk Kong. “Un mio collega a HK, Mitsuru Konishi - attualmente chef del ristorante Zest - ha lavorato una vita in Francia. Mi ha lasciato delle basi francesi impressionanti. Oltre a tecniche giapponesi. Ancora oggi mi viene da pensare, ma Konishi questa cosa come l’avrebbe fatta”. In quegli anni, durante il suo giorno libero, andava in un ristorante giapponese a fare gavetta di una cucina a lui sconosciuta.
“Ho lavorato gratuitamente in un ristorante tradizionale giapponese dove per entrare dovevi chiedere permesso. Le prime 6 settimane mi hanno messo in un angolo a guardare, io mi avvicinavo e dicevo, se vuoi ti faccio i fritti. Non la tempura eh, per quella dovevi avere la loro assoluta fiducia e alla fine la dose della pastella mica me l’hanno data. Vedevo boule con olio che continuavano a togliere e mettere in frigo. Dopo due mesi hanno iniziato a farmi fare qualcosa. Alla fine qualche ricetta me l’hanno passata”.
Fabio è al primo menù. Del rigore necessario per riproporre i piatti della “casa” non stiamo nemmeno a parlarne. Per il resto, ciò che richiede un pensiero creativo quasi puro, Fabio si sta focalizzando su poche cose, ma con approccio radicale. L’ingrediente, la semplicità della presentazione dei piatti e il confronto. Tre elementi che per più di un motivo si connettono. Il primo si basa sulla reperibilità locale. Tutto ciò che gli serve proviene dal Piemonte o poco oltre. Nei dintorni - ci spiega - riesce a trovare tutto, tranne il pesce fresco per il quale si spinge nella vicina Liguria.
“Anche per il piccione, ho trovato un ottimo allevatore certificato qui vicino. La tinca la prendo a Ceresole d’Alba, al presidio Slow Food Cascina Italia, che ci offre prodotti fenomenali, anche le anguille le prendo da lui. La carne la prendo qui a Santo Stefano Belbo, da Fantoni. Telefono e arriva in pochi minuti. Facciamo miso, koji, salsa di soia, abbiamo messo su la kombucha. La cultura della fermentazione aleggia nella nostra cucina ma con materia prima 100% locale”. La parte fermentata sarà, in tutti i casi, un intervento minimo sul piatto, per non rischiare che l’ingrediente venga cannibalizzato. Tuttavia, la fermentazione porta vantaggi dal punto di vista della sapidità, facendo grandi assist per proposte a zero utilizzo di sale, come il rombo marinato alla soia autoprodotta e cotto con una salsa barbecue cinese. Piatto che Fabio inserirà presto nel menù accompagnato a cavolfiore fermentato.
La semplicità riguarda la presentazione delle portate. Nessuna ricerca dell’effetto wow al primo sguardo, piuttosto al primo assaggio. Tutte le portate principali saranno sempre divise in due piatti, uno per la materia prima portante, l’altro per il contorno. Questa scelta minimalistica chiama sicuramente un’altra concentrazione del gusto, come abbiamo sperimentato nel piccione di cui parleremo fra poco. La semplicità riguarda anche l’approccio interpersonale, secondo la massima per cui se chiedi e cerchi aiuto riesci ad andare avanti, se fai sempre da solo prima o poi ti fermi.
Il confronto riprende la filosofia del so di non sapere. Comincia dalla brigata, coinvolta nella riflessione sull’ingrediente e sul non spreco e continua nell’ascolto dei fornitori. Come nel caso di Fantoni che gli ha suggerito, per un piatto nato con l’agnello, di usare invece la capra locale. Detto fatto, in pochi minuti Fabio ottiene la prelazione delle migliori capre della zona da utilizzare da marzo in avanti. Ci confida che con Fantoni sta legando bene, che gli chiede tanto, risultando - ride - a volte anche fastidioso. Confronto va di pari passo con sostenibilità, nel senso che genera un clima altamente sostenibile in cucina. I tasting collettivi anche con la sala, puntano a creare una squadra allargata in cui la comprensione e il sostegno sia massimo. Da Guido le tavolate anche sopra le dieci persone sono molto ben accette così come i bambini. Da ottobre a metà dicembre ogni sera è stata un sabato sera, con gruppi anche di 15 persone. Inoltre, a vista, ci sono anche portate il cui servizio andrebbe terminato in sala.
“Nessuno può essere grande senza una squadra unita che ti supporta e ti sopporta. Far vivere la sala anche ai cuochi è utilissimo per capire le dinamiche del servizio. E viceversa. Se arriva un tavolo alle 21.00 e dopo 30 min non ha ancora ordinato, non serve sbuffare ma capire la dinamica. Magari non hanno ancora letto il menù, perché si dilungano nelle chiacchiere tra loro. Oppure, i camerieri stanno dedicando il giusto tempo per spiegare i piatti e ci mettono un pelo a tornare a prenderne altri. In cucina non ti devi arrabbiare perché su certi piatti il racconto deve essere esaustivo. Il nostro vero datore di lavoro sono i clienti, che alzano il telefono e tornano da noi”.
I piatti
Per la riapertura, che sarà a marzo, Fabio porterà piatti tutti suoi. Anche se dovremmo dire tutti suoi e della brigata. Se l’ascolto e il confronto non arrivassero anche all’ideazione dei piatti, sarebbe qualcosa di ipocrita. “Non guardo più al nome degli chef a chi sono diventati. Ma all’idea a cosa fanno. Guardo le linee di pensiero. Non è uno sbirciare nel giardino degli altri. Se il giardino degli altri è verde io di default sono contento. Se invece si sta seccando mi spiace veramente tanto”. Per uno dei nuovi primi piatti del menù, Fusilloni, pil pil, carpaccio di baccalà e melograno, Fabio ha lanciato uno dei suoi chiodi fissi, il pil pil, addosso al responsabile dei primi. Da lì l’idea comune di risottare la pasta nel pil pil, di usare carpaccio di baccalà crudo appena marinato in olio e sale, dadini di patata fermentata per dare acidità e di chiudere con tre polveri ricavate da melograno, cipolla arsa e pelle di baccalà.
Lo stesso ha fatto per un Raviolo tipo gyoza con ripieno di magro da erbe spontanee raccolte in zona, condito con polvere di cipolla fermentata e tartufo nero. Non lo abbiamo assaggiato ma avremmo voluto. Fabio gira spesso a fare foraging nei dintorni. Quando ancora conviveva con lo chef Zecchin, aveva notato fiori dallo stelo lungo che sembravano piccoli girasoli. Si è messo a scavare e ha trovato splendidi topinambur. Fabio non nasconde che vuole investire a Santo Stefano Belbo, della sua vita e della sua crescita. La preparazione della soia è un sapido indizio di questa progettualità. “Ho messo su la soia, che verrà pronta a inizio 2025, già ti fa capire. Voglio stare qui. La soia ho imparato a farla là dove se la fanno in casa. Ho chiesto a uno dei miei ragazzi che mi ha passato la ricetta di sua mamma che arrivava dalla nonna. Uso fagiolo di soia e invece del peperoncino ho messo un peperone crusco, poi carbone vegetale, soia e acqua. In vasi di vetro a fermentare. Ne verranno circa 35 litri. Verrà ultrà concentrata, con una consistenza simile a un buon aceto balsamico invecchiato. Sarà una soia molto diversa da quella a cui siamo abituati nei ristoranti di sushi, più densa e con profumi di tostatura”.
Il secondo piatto che assaggiamo in anteprima è il Piccione. Assistiamo a una presentazione minimalista: in un piatto petto, coscia e filetto, adagiati su un fondo ricavato dalle ossa e poi aromatizzato con burro montato e fatto invecchiare con koji di riso. Il patè di fegati di piccione e pollo è servito con del pane sfogliato. In un terzo piatto il contorno di stagione vale a dire insalata di biete e scalogno crudo, e zucca al forno. Prima della cottura il petto viene fatto maturare per dieci giorni nella cera d’api che arriva da un’azienda di Sommariva.
Il resto del menù parla la lingua della felice tradizione alciatiana. Sfere di vitello tonnato a dire ci siamo, plin al tovagliolo a dire prendo, porto a casa e ci rivediamo presto. In un posto magnifico, dove le colline delle Langhe mozzano il fiato, fermarsi nelle antiche cantine del Monastero che poi fu il Relais San Maurizio, significa avere la disposizione d’animo per mettersi all’ascolto di un giovane chef senza troppe mire da solista, eppure con il fuoco dentro. Uno che ha preso sul serio il suo mestiere e anche il mestiere di vivere.
Indirizzo
Guido Da Costigliole
Località San Maurizio, 39, Santo Stefano Belbo, Italia
Tel: 0141 844455
Sito web