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Inkiostro bianco: la molecolare gentile di Terry Giacomello

di:
Alessandra Meldolesi
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Nella cornice modernista dell’Inkiostro di Parma, Terry Giacomello propone finalmente la sua cucina d’autore: un’avanguardia gentile, dove le tecniche avanzate sono l’inchiostro bianco per descrivere armonie fuori dal tempo.

La Storia

La storia di Terry Giacomello


4/9/2015. Era un caldo venerdì di settembre quando Terry Giacomello, vecchia conoscenza dei gourmet italiani e non solo, accese il fuoco della sua passione sotto le pentole dell’Inkiostro di Parma. Bella struttura modernista nella periferia cittadina, non lontano dal casello autostradale, edificata from scratch dalla famiglia Poli nel 2010, proprio di fronte all’hotel della casa. Attorno ai suoi passi gli incastri ortogonali di un’architettura imponente, colorata nelle tonalità che virano dal grigio verso il nero, con la cicatrice bianca di una luce in verticale.

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Finalmente la grande occasione per lo chef friulano, fra i più tecnici d’Italia grazie a una gavetta ventennale nei ristoranti nevralgici del continente europeo. Partito dalla trattoria dei genitori a Montereale Valcellina, consacrata a risotti, bolliti e brasati, dove con mamma Vanda dopo l’alberghiero dava una mano a impastare il pane e montare il tiramisù. “Non ho mai dubitato che la strada fosse questa”, dice: ha infilato l’Excelsior, il Cipriani e il Gritti di Venezia prima della pietra miliare di Londra, alla corte di Willi Elsener. “Lì ho visto le prime cose diverse e non mi sono più fermato: Sergio Mei, un anno da Marc Veyrat e 6 mesi in stage da Michel Bras, la Siriola e il St Hubertus”.

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“Al Bulli sono arrivato grazie a Giorgio Grigliatti come stagista e poi sono stato assunto. Vi ho trascorso quasi 4 anni, al ristorante e al taller. Un’esperienza fantastica: non ho più visto niente di simile. Impiegavamo mesi per mettere a punto un piatto, poi magari arrivava il momento di servirlo a Ferran e non usciva perfetto, perché il prodotto non è mai lo stesso. Ma lui è uno che ti apre la testa. Sono partito nel 2009, perché volevo il mio ristorante. L’ho trovato a Madonna di Campiglio, prima di assumere il ruolo di secondo alla Siriola. Senza smettere di formarmi: in stage sono passato al Noma e al Mugaritz, dove sono stato nuovamente travolto dall’energia spagnola, dalle loro sperimentazioni e ricerche gustative; per finire da Alex Atala, che mi ha aperto un mondo, quello di ingredienti sconosciuti come la farina di patata fermentata e gli insetti. Ma in futuro non escludo Narisawa”.

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La stella si era già tuffata nell’Inkiostro di Franco Madama, autore di una cucina di pesce più basica di quella attuale, oggi all’opera presso il Jumeirah di Roma. “Ma io sto cercando di mettere in carta più terra. E in generale è la prima volta che posso proporre la mia cucina”, commenta Terry. “Non conoscendo il territorio, ho dovuto scegliere nuovi fornitori: a Genova il pesce, a Ferrara la cacciagione. L’attrezzatura invece non è cambiata, ma spero di acquisire qualche nuovo macchinario. Abbiamo intenzione di collaborare con il professor Davide Cassi per le nostre sperimentazioni”.

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Il risultato non è solo tecnica, come ci si aspetterebbe, ma anche tanta finezza gustativa, con un’attenzione maniacale per i dettagli e le sfumature. Un’avanguardia a tratti patente, a tratti schiva, che mette spesso la molecolare al servizio di armonie gustative fuori dal tempo, nel filone di Ettore Bocchia e di una certa Anteprima. Classicheggiante nell’adesione al verbo rinascimentale (“ars est artem celare”), nella centralità delle salse e nello stile simmetrico e geometrico degli impiattati, che sembrano lanciare un rappel à l’ordre. Difficile immaginare la ricerca sottesa ad alcuni piatti. Vedi il branzino marinato nella salamoia, per creare una “cauterizzazione” che trattenga i succhi sotto la salamandra, o l’orata cotta sulla pelle croccante sotto il ghiaccio. Morsi che a prima vista sembrerebbero banali, mentre incarnano l’essenza stessa della tecnica, propiziando quella convergenza di avanguardia e classicismo messa nel mirino da tanti artisti essenzialisti.

I Piatti

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Il menu degustazione si compone di 8 corse al prezzo di 120 euro, la cui sequenza forma un ritmo ondulatorio, nei gusti dominanti e nelle entità; in sala officiano la titolare Francesca Poli e il sommelier Luca Cammilli, che sta riorientando la cantina, custodita al piano inferiore, in direzione naturali. Gli appetizer sono un crocevia delle recenti avanguardie: la patatina pop di fiore di loto con polvere di aceto; il ragnetto di riso (stracotto, frullato e fritto come uno spaghettino soffiato); l’alloro con prugna fermentata e zenzero, unico lascito del Noma, da leccare sulla foglia; il “caviale” di semi di basilico al Campari, variante dei cocktail testurizzati che sfrutta la mucillagine naturale dei semi, alla maniera di Matteo Baronetto. Punte gustative acide e amare destinate a non ricorrere nel pasto.

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A seguire la “meringa” di mais centrifugato e albumi disidratati con uova di lompo, in stile Anteprima, ma con un ricordo di polenta alle aringhe, e il crostino di pane con ricciolo di burro spolverizzato di patate in polvere, che simula una patata gaufrette, ai semi di papavero. Un contropiede antitecnico, soprattutto un trompe-l’oeil che cela il burro crudo d’alpeggio sotto le sembianze di una patatina. E ancora il ricciolo di triglia alla plancha, coronato da un sospetto di caprino, servito con centrifugato di cetriolo completo di buccia, il cui amaro è ripreso dal gin Marton’s, che dinamizza il piatto con la verve dell’alcol crudo.

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La spirale del primo antipasto evoca il fantasma di Albert Adrià, di cui rappresentava la firma. In questo caso è formata da tuorlo congelato, che con il freddo si coagula e può essere ridotto in pasta e setacciato, alternato ad albume bollito ed emulsionato con olio di girasole, aceto e brodo vegetale. Il veicolo grasso per una molteplicità di contrasti acidi e piccanti: in tutto sono 18 elementi, con divertenti alti e bassi gustativi.

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Ottima l’ostrica fine de claires servita tiepida e leggermente affumicata con crema di pistacchi (frullati con acqua minerale, congelati e pacossati diverse volte per stabilizzare il composto) per la grassezza più un cordone di barbe frullate all’acqua di mare e qualche goccia di olio al ginepro per una sensazione sferzante di macchia sulla costa. Le vongole veraci invece sono aperte sottovuoto, nappate della gelatina della loro acqua e accompagnate da granita di lime, spuma di limone, olio allo zenzero e salsa di soia.

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Gli spaghetti tirati a mano, all’apparenza italianissimi, sono in realtà ispirati alla cucina tradizionale spagnola: conditi con un’emulsione di peperoni, ricci di mare, coriandolo e gocce di latte cagliato per la morbidezza, derivano da una ricetta di fideuà con pimenton de la Vera e arizos gustata in loco. Molecolari in senso stretto gli gnocchi di purea di patate, addensati come una sferificazione inversa in un bagno di alginato e scaldati in un consommé di buccia di patata fritta, fino a raggiungere una testura unica, ancora fluida all’interno. Vengono serviti con crema di mandorle amare, alici marinate, spine fritte e acqua di tartufo nero.

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Tanto virtuosistica quanto disarmante la zuppetta di extravergine con astice panato al curry, arancia pelata a vivo, alga uva di mare ed erbe carnose (salty fingers e ficoide glaciale): piatto basato su associazioni consuete (crostacei e agrumi) e sull’inversione di proporzioni fra condimento e condito, dove l’emulsione è ottenuta al mixer da acqua addensata con amido di mais fino a consistenza vischiosa ed extravergine 46° parallelo. La tecnica al servizio di un’idea classica.

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Altrettanto denso di rimandi il trancio di merluzzo dissalato servito con purea di aglio fermentato e zuppa di pasta sfoglia, che varia le testure di preparazioni demodé come un pesce in crosta o un vol-au-vent di mare. La sfoglia in questo caso viene stesa molto finemente, tostata in forno e messa in infusione nel latte per 10 minuti con radici di lemon grass e foglie di limone per la freschezza. Il liquido passato al colino fine rappresenta la zuppa in cui viene tuffato il pesce.

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Per secondo di terra il piccione dalla cottura millimetrica, alla lettera: spadellato intero, poi passato in forno, con la pelle croccantissima sul petto e la polpa praticamente cruda; le coscette ripassate a parte a bassa temperatura. Sul piatto con un crumble di fiori di acacia e noci, per una sensazione di granaglie, zucca cruda e due erbe in contrasto, dal gusto amarotico di fungo e griglia.

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Il predessert è una meringa di centrifugato di mela verde, grano solubile per il croccante e albumi disidratati, servita con sorbetto di foglie di sedano, yogurt disidratato e fiori. Freschissimo. A servire il millefoglie di patata dolce croccantata nello sciroppo, crema di Philadelphia e miele, salsa di caffè e spezie.

 

Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi

Indirizzo

Ristorante Inkiostro

Via San Leonardo 124 - 43122 Parma

Tel. +39 0521 776047

Mail: info@ristoranteinkiostro.it

Il sito web del ristorante Inkiostro

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