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Rasoiate di Seta al Mandarin: la migrazione di Antonio Guida

di:
Alessandra Meldolesi
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antonio guida copertina 970

Antonio Guida porta nel centro di Milano la cucina che ha fatto volare il Pellicano: tutta la modernità della lezione francese in piatti concreti e rigorosi, impreziositi da calligrafiche pennellate orientali.

La Storia

La storia di Antonio Guida


E' volato sui tetti di Milano, il talento del Pellicano: attratto dal richiamo di un Oriente ormai di casa sotto la Madonnina, dentro quel Mandarin hotel inaugurato nel quadrilatero della moda al termine di 3 anni di lavori e 7 di progettazione. Un nido di legni preziosi e intarsi marmorei, bianchi e neri, politi dalle mani di artigiani italiani, la cui ovattata atmosfera d’antan, domestica e tutta lombarda, si apre alla città attraverso due ingressi dedicati al food, cuore del concept della catena deluxe insieme alla SPA. In quella che era una banca, con le cubature grigie degli uffici, l’architetto Citterio ha iscritto gli spazi di 4 cucine indipendenti, sparse su una superficie di 500 metri quadrati. Un’occasione imbeccata al volo da Guida, in arrivo da una location similare a Porto Ercole, dove già provvedeva al room service, con i corollari di colazioni e room amenities, alla ristorazione gastronomica e a quella informale del bistrot.

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Guida non è certo il primo chef meridionale a insediarsi in un grande albergo del nord, lui nato a Tricase, nella magia del Salento, con quel senso del gusto impigliato alla spirale del DNA. “Come sempre accade, è stata mia madre a contagiarmi con la sua passione. Ricordo che accanto al forno a legna per il pane se ne era fatto costruire uno più piccolo solo per la lasagna, che era la sua specialità: dalla preparazione della pasta fino alla mezza, quando arrivava in tavola, la sua preparazione era un rito di festa. Le mie prime esperienze professionali, però, dopo l’Alberghiero le ho compiute con Rafelino Bello, decano della pasticceria salentina. Dopo di che mi sono imbarcato su una nave da crociera e sono passato all’hôtellerie presso il Savoy di Zurigo, scuola di rigore e organizzazione svizzera”.

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Fughe di radon prima di un sisma chiamato Pierre Gagnaire, con epicentro in rue Balzac a Parigi: “Mi ero informato un po’ in giro prima di spedire il curriculum con una lettera di presentazione che gli piacque moltissimo, non so bene perché. Ricordo una cucina geniale, soprattutto per la dinamicità: cambiava continuamente i piatti in corsa, stimolando chi lavorava con lui a evolversi. Spesso con risultati entusiasmanti, talvolta con grossi rischi e in ogni caso con totale abnegazione da parte di tutti noi, che a fine servizio eravamo stremati. I fogli per la mise en place erano chilometrici, cosicché alle sette di mattina già correvamo. Io ero ai secondi, la partita che mi piaceva di più, ma il pomeriggio anziché tornare a casa passavo in pasticceria. Ero l’unico che lo chiamava per fargli assaggiare tutto, prima che venisse colto dal raptus delle improvvisazioni, col rischio che il servizio rallentasse o si inceppasse”.

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Una “cucina a soggetto” mossa dalla ricerca dell’assoluto, perché ogni parola detta è già morta, ogni forma d’espressione è già oppressione. “Modificava di continuo l’impiattato, qualcosa che ti apriva la mente. Anche l’approccio tecnico era molto interessante, per quanto diverso da quello di Ducasse, dove tutto era perfetto perché rigidamente impostato. A volte capitava di rompere gli schemi con nuove elaborazioni, il cui esito non era sempre sicuro. Ma a parte il carisma, Gagnaire era sempre presente in cucina, mattina e sera. Sono andato via perché mi trovavo troppo bene, ho avuto paura di fermarmi per sempre, come tanti amici, e ho preparato le valigie a malincuore”.

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Sono seguiti un anno all’Enoteca Pinchiorri, con i diarchi Bassi e Monco, un altro al Don Alfonso della dinastia Iaccarino e poi l’Eden di Roma con Enrico Derflinger. “Da lì sono arrivato al Pellicano, grazie alla segnalazione di alcuni clienti. Era la fine del 2001 e appena ho visto il posto, ho subito accettato. Ed è stato un crescendo perché non avevano mai nutrito troppe ambizioni in cucina. Siamo partiti con un ristorante che faceva 80-90 coperti tutte le sere, poi li abbiamo ridotti a 50 e abbiamo aperto il grill come proposta informale. Sono arrivate la prima e la seconda stella Michelin”. Tredici anni di successi gli hanno infilato all’occhiello una rosa di classici, come il risotto al nero di seppia con calamaretti spillo e crema di curcuma, il sampietro con lumachine di mare e pasta alle acciughe, il piccione con foie gras e ananas, tuttora al centro tavola del Mandarin. Da Porto Ercole arriva anche lo zoccolo duro della brigata: i due sous-chef, Federico Dell’Omarino e Roberto Stefani, e il pasticciere Nicola Di Lena, fra i migliori nei rispettivi ruoli in Italia, a capo di una squadra di 12 elementi (ma le 4 cucine indipendenti, compresi bistrot, mensa e room service, ne contano 35).

Il Ristorante

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Del tutto nuove sono invece la cucina, disegnata da Guida con due blocchi per la carne e il pesce, gli antipasti e i primi, a firma Electrolux, e la carta dei vini, che conta attualmente 500 etichette, ma arriverà presto a 800: sotto una copertina confezionata con lo stesso legno del parquet, elenca una settantina di Champagne e una quarantina di bollicine provenienti da tutta Italia. La selezione è internazionale, con una pagina per il pinot nero (vitigno del cuore dello chef) nel mondo; ma l’abbinamento cerca spesso gli aromatici, in armonia con la speziatura della cucina. Anche la sala è cambiata: la guidano il maître Alberto Tasinato e il sommelier Ilario Perrot, già all’opera con Andrea Berton.

 

 

Le fotografie dei piatti e di copertina sono di Cristian Parravicini

I Piatti

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Riso in cagnone con crema di erbe, verdure e polvere di lampone
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La cucina segue la scia del Pellicano, con qualche calligrafica pennellata orientale e accenni di milanesità pronti a varcare il menu. “Ho conosciuto le cucine asiatiche nel quadro di consulenze all’estero. Mi piace citarle per stabilire un dialogo con gli altri Mandarin nel mondo”. Lo mette subito in chiaro il nome del ristorante: Seta, per ricordare il pionieristico import export a opera di Marco Polo, soprattutto quale evocazione di preziosità, morbidezza e avvolgenza. Veste uno stile apollineo nel passo e classico nella moderazione gustativa, che rintuzza gli eccessi attraverso la Klassische Dämpfung dell’estetica. Non senza qualche rasoiata ma di seta, come in una poesia di Alda Merini.

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La partenza è dai ricordi, l’Oriente nei dettagli. Quindi la Puglia di una madeleine (letterale e letteraria) di pomodoro con burrata e alici e la cozza fritta ripiena di peperone, secondo un connubio del territorio, con una punta di maionese al wasabi per l’oriental touch. E ancora, fra gli appetizer, il bonbon di Parmigiano liquido avvolto nella gelatina Kappa, stile cacio e pepe, e il sablé di ricotta e cerfoglio con tuile di pistacchi. Arriva subito dopo il pane: grissini stirati a mano e un pane confezionato dal pasticciere Nicola Di Lena con farina di Altamura e un lievito madre ormai sedicenne. In accompagnamento due tipi di burro: dolce e alle alghe, come variazione del classico salé. Ancora oriente, assorbito dentro le porosità del classicismo, nell’astice blu arrosto con capperi, zabaione al Marsala, patate leggermente affumicate al miso e tè Matcha.

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Il Collo di pollo ripieno con salsa suprema e alga nori disegna gli assi lungo i quali si muoverà tutto il pasto: richiami popolari o mediterranei, grande classicità di matrice francese (la salsa al foie gras è eseguita secondo la ricetta di Pierre Gagnaire), giapponismi. Contrasti di classe e culturali che evaporano in un morso generoso, esaltato dal leggero umami della julienne di alga nori. Più contrastato il Cavolfiore con salsa al latte di mandorle, succo di yuzu e frutti di mare, con il vegetale, cotto nel latte e ripassato sulla plancha fino a caramellizzazione, delicatamente enfatizzato dal latte di mandorla; l’intensa acidità dell’agrume giapponese in sinergia con la sapidità dei frutti di mare (cozze, gamberi, lumachine di mare, telline) quasi crudi. Dove l’impiattato simmetrico e concentrico, a rosone, preannuncia la saldezza dell’equilibrio gustativo.

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Notevolissimi i primi piatti, a cominciare dal celebre riso al nero di seppia con crema di riso alla curcuma, calamaretti spillo e piselli, dall’impiattato rigorosamente concentrico, dove la ripetizione del cereale sotto forma di crema crea un effetto di doppia mantecatura dalla morbidezza spettacolare; il nero di seppia e la spezia si esaltano a vicenda per poi stemperarsi nella freschezza della guarnizione. Non da meno i ravioli farciti di hummus con cozze, crema di peperoni e caprino, definiti dal direttore Luca Finardi “un viaggio tra Tricase e Bodrum” nel connubio di pasta e spezie, italianità e Medio Oriente. “Il piatto è nato lavorando in Turchia per un altro Mandarin: ho avuto l’idea di un raviolo dalla farcia molto morbida, con il cumino e il succo di limone, da accostare a ingredienti italiani, nella fattispecie ancora cozze e peperoni, più il caprino per la verve acida”.

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Il petto di pollo ficatum di Moncucco, dalla perfetta succulenza, è spadellato al lime e servito con fregola ai garusoli e crema di cannellini alle alghe, di nuovo lungo gli assi della classicità, del Mediterraneo e dell’Oriente, rifunzionalizzando l’elemento marino come esaltatore. Mentre il piccione al foie gras, evergreen d’Oltralpe, viene reinventato con l’aggiunta vivificante di una sfoglia di ananas, la cui acidità spariglia lo spartito conosciuto, e una crema di polenta al pan brioche (tradizionalmente associato al foie gras), che esalta la dolcezza del piatto. Sono tutti lubrificati da un fondo di piccione eseguito secondo la ricetta di Gagnaire; ma siccome il piatto si evolve, è allo studio una crosta di confetti in omaggio al genio di Alain Passard.

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Per dessert l’impeccabile Parfait alla liquirizia con cristalli di tabacco Kentucky, pera alle spezie e crema al caffè: i riti dell’after dinner, espresso e sigaretta, in un’interpretazione elegante, che delle foglie, così ostiche in pasticceria, sfrutta la forma irregolare, le nervature, dal crunch differente, e soprattutto il tannino (particolarmente abbondante nel Kentucky), che continua a lavorare in bocca abradendo i resti del pasto.

Indirizzo

 

Ristorante Seta c/o Mandarin Hotel Milano

Via Andegari 9 - 20121 Milano

Tel. +39 02 8731 8888

Mail: momln-info@mohg.com

Il sito web del ristorante Seta al Mandarin Hotel Milano

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