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Compasso e volo: Angelo Sabatelli trascina la Puglia

di:
Alessandra Meldolesi
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Primo cuoco pugliese, fra i migliori di tutto il Meridione, Angelo Sabatelli stupisce per purezza ed eleganza a Monopoli.

La Storia

La Storia di Angelo Sabatelli


Non è proprio un autodidatta, Angelo Sabatelli, unanimemente considerato il primo cuoco di Puglia, ma di certo un battitore libero, che al lancio è arrivato al termine di una corsa in solitario, senza magisteri definiti. A partire da Monopoli, dove al termine dell’alberghiero ha iniziato a esplorare la professione qua e là, prima nella banchettistica, poi in una pasticceria che l’ha profondamente influenzato. “Si chiamava Allegrini ed era forse la migliore in zona; ricordo che passavamo il tempo a porci domande sulle trasformazioni degli ingredienti. Vi ho trascorso due anni, finché un giorno mentre facevo il militare non ho scorto Gran Gourmet in edicola e sono rimasto folgorato dai piatti di Marchesi. Mi sono detto: è questo che voglio fare. E sono ritornato in cucina”.

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La prima destinazione è Masseria Spina, che lo vaccina ai grandi numeri e da cui si allontana per un breve stage in via Bonvesin de la Riva, utile soprattutto per l’organizzazione; poi per il tramite di un cliente si aprono le porte di Roma, prima da Giacomo poi al Convivio, dove arriva la prima stella Michelin. C’è anche l’occasione per il secondo e ultimo stage al Trigabolo, a scuola di anticonformismo, seguito dalla frequentazione di Saperi e Sapori. E il biglietto per l’Asia: tutti cinque stelle lusso, prima a Hong Kong, poi a Giacarta, infine a Shanghai e in un resort alle Mauritius, dove continua a servire una cucina italiana d’autore. “Non avendo compiuto un percorso classico, però, tante cose ho dovuto studiarle e inventarle, provando e riprovando, ripetendo le ricette con un mio tocco personale. E mi sono sempre rifiutato di cucinare per stranieri, ad esempio nelle cotture”.

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Qualche anno speso in giro per la Puglia e dal 2010 è di nuovo Masseria Spina, ma da chef patron. Almeno fino al prossimo mese di gennaio, poi si vedrà. Con lui, attraverso i continenti, viaggia la moglie Laura Giannuzzi, alla guida della sala.

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“Sono tornato per il prodotto, perché in Italia basta spaccare un pomodoro e il piatto è fatto. Invece all’estero ho imparato a fare l’alchimista, esaltando ciò che non aveva gusto e ricreando l’equilibrio con un trucco. Una volta ho persino imitato le cime di rapa. Ma in Asia non mi sono mai dedicato più di tanto allo studio della cucina locale, a parte tecniche specifiche”. Per esempio la caramellizzazione delle noci, applicata ai lampascioni, o il latte fritto, con la pastella croccante e il ripieno fondente, sposato alla pesca bianca.

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Il risultato è una cucina neomarchesiana, affine alle realizzazioni di Niko Romito e Riccardo Camanini per armonia, purezza e pulizia, essenzialismo, riflessività e capacità di spiazzamento, che della Puglia sa valorizzare in chiave contemporanea la pulsione algebrica, naturale in un paesaggio razionale come un foglio A4, dove le ricette accostano due o tre ingredienti al naturale, spesso addirittura crudi. Anche l’estetica orientale, tanto amata da Marchesi, contribuisce a spazzar via qualsiasi elemento superfluo: non multa sed multum, come recita un motto latino recuperato alla contemporaneità. La semplicità tuttavia è difficile, visto che le giustapposizioni brulicano di ingredienti e manipolazioni nascosti. Con una sensibilità spiccata per le consistenze, sempre protagoniste, e una rinnovata attenzione per le tradizioni del territorio, intese quale ponte verso la sensibilità dell’ospite. La somiglianza con tante ricerche coeve salta agli occhi, più come una traccia del general intellect che regge le sorti della cucina che quale indizio di prestiti e influenze.

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I menu sono tre: Solo pesce, I classici ed Emozioni extraterritoriali, secondo l’estro e il mercato, rispettivamente a 60, 90 e 120 euro. Si compongono per la maggior parte di ingredienti di prossimità, con l’eccezione di alcune carni, “perché gli acquisti li faccio di mattina e le verdure sono quelle tagliate il giorno prima o la mattina stessa”. In cantina, per le cure di Giovanni Tortora, riposano 600 etichette selezionate dallo chef, appassionato connaisseur, fra cui risaltano gli Champagne, anche di piccoli produttori, e tanti pugliesi.

I Piatti

 

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Strepitosi per varietà, coerenza e precisione gli appetizer: il datterino in trompe-l’oeil, ripieno di pane e pomodoro, avvolto in una gelatina alla Kappa di acqua e basilico colorata di rosso, che sembra scherzare sul lavoro da “alchimista” in Asia; la cialda di farina di ceci tostata con crema di capperi e uva passa, una filigrana ottenuta con la tecnica indiana delle lenticchie bianche; il ravanello in agrodolce farcito al miso e cosparso di katsuobushi, giapponista in purezza; il macaron gallicizzante al foie gras; il biscotto al Canestrato con funghi al Moscato di Trani ed erba pepe e il fazzoletto di grano arso alla ricotta forte, che esce malleabile dal forno e può essere modellato in una forma ludica e palatabile, con il formaggio spalmato sotto per l’effetto sorpresa. Poi i pani: i taralli al finocchietto e all’extravergine, i grissini alla cipolla, il pane briosciato al Canestrato e miele di castagno.

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Nella lasagnetta di seppia emerge un ricordo della pasticceria, dove Angelo è cresciuto. Il velo è di seppia frullata e cotta, a differenza della “pasta” di Uliassi, ottenuta da grossi molluschi abbattuti e affettati, cosicché la consistenza risulta fondente e quasi gelatinosa; copre gli allievi interi, giovani seppie croccanti e burrose, lavorate nel ghiaccio. Testura su testura, quasi insapori; per l’aggancio alla tradizione il limone, come scorza ma candita nel succo di limone, foriera di aromaticità e acidità, e la crema di mandorle secche reidratate, per la grassezza e un effetto in bocca quasi di marzapane, con la consistenza familiare di una maionese. In superficie una spruzzata di “liquirizia” di mare, composta di nero, alghe e ricci crudi, disidratati e polverizzati. Un’insalata soave nelle sembianze di un raviolo aperto, che apre il menu su un’insolita nota dolce.

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A seguire le eleganti cozze pelose con piselli e yuzu, variazione della classica ‘mpepata con il centrifugato di piselli crudi per la dolcezza e la clorofilla, la tapioca alla cicoria per un leggero amaro. “È un mollusco che amo per la sua complessità, con note di riccio e dattero sulla classica cozza; come certi frutti tropicali che ne riassumono diversi altri”. In abbinamento un cocktail a base di vodka Evo al bergamotto, gazzosa Lurisia e succo di limone, per riprendere le note agrumate del piatto in un simil Moscow mule.

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Oppure la incapriata di fave e cicoria, sorta di pancotto tradizionalmente preparato aggiungendo pane raffermo agli avanzi. Viene servita al salto, per esaltare il legume attraverso la testatura, con un’ostrica intiepidita nella sua acqua, per la sapidità acquosa sulla sinergia dolce/amara e il contrasto ricco/povero, e fiocchi di katsuobushi per l’effetto vibrante.

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Poi la melanzana, ispirata a una ricetta orientale. La preparazione è laboriosissima: l’ortaggio è fritto intero, per non fare penetrare troppo olio, poi pelato, spennellato di emulsione di soia e olio e passato in forno a più riprese. Seguono la pressatura per favorire la concentrazione e la laccatura con il liquido recuperato, fino a ricreare una finta buccia nera sul parallelepipedo, in forma di glassa. Non viene servito più con basilico, burrata e pomodorino candito, ma con un olio nero di olive disidratate e reidratate in extravergine. Total black, sotto la cialda di ricotta ghiacciata che si modella pian piano sugli spigoli. Il gusto finale è quella della liquirizia, che però manca.

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Più comfort i primi piatti. Riso, patate e cozze, preparato con il riso soffiato, in stile Yoji, per la crosta croccante e il pomodoro al limone sul fondo, in liaison con i mitili. Oppure le orecchiette con il ragù cotto oltre 30 ore sottovuoto, per una sgrassatura naturale, e la fonduta di Canestrato; i ravioli ripieni di crème brûlée e porcini, per esaltare la morbidezza, conditi con burro al limone, polvere di ginepro e lichene, simil fungo che esalta il fungo vero. Sul confine fra classicità e avanguardia.

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Altrettanto familiare il rombo, stupendamente cotto sulla lisca in padella e al forno, su crema di patate al guanciale e rosmarino con emulsione di pomodori confit e coriandolo, per la freschezza e quale elemento straniante. Oppure il petto d’anatra, servito con ciliegie leggermente gratinate all’anice stellato, barbabietola in agrodolce e caprino.

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I dessert, diretti e primari, tornano sui livelli degli antipasti: la meringata di panna montata e frutti rossi con le piccole meringhe in sospensione, semplice e geniale, piacevolissima nelle consistenze ludiche, su un letto di zabaione ghiacciato e soprattutto i bonbon di cioccolato con Cynar e lampascioni canditi, per un triplice amaro a fine pasto, anche a fini digestivi. Dove i bulbi subiscono una lavorazione lunghissima, che prevede fino a dodici bagni al giorno per settimana, poi vengono canditi a fuoco bassissimo e lasciati maturare per un mese nello sciroppo, innescando un processo quasi fermentativo.

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Tutte le fotografie sono di www.noaofood.com

Indirizzo

Ristorante Angelo Sabatelli

Contrada Spina, 437 – 70043 Monopoli (BA)

Tel. +39 080 802396

Mail: info@angelosabatelliristorante.com

Il sito web del ristorante Angelo Sabatelli

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