Pochi ingredienti scelti per una valida ricetta pro-futuro: la cucina di Domenico Stile è una somma ponderata di correnti mediterranee che interagiscono nel piatto, dove la tecnica non ignora mai la gola. Da Enoteca La Torre il magic touch campano incontra il gusto universale.
Enoteca La Torre Villa Laetitia
Enoteca La Torre e la cucina di Domenico Stile
Buona parte del pianeta è convinta che il successo nasca da grandi cambiamenti. Atti prodi e rivoluzionari, magmatici getti di creatività, tempeste intellettive e avanguardie supersoniche. Ma in cucina, spesso, accade l'opposto: i premi per lo sforzo compiuto arrivano quando si è talmente fedeli a se stessi da non doverlo strillare fino alle Colonne d'Ercole. Ci sono chef che hanno demolito e rifondato i pilastri della gastronomia in silenzio; erano i piatti a parlare per loro. E proprio quando il food impact ha resistito alla prova del tempo, l'insegna è entrata di diritto nella cerchia degli eletti.
Domenico Stile il suo balzo avanti l'ha fatto da anni, scegliendo la strada della costanza. Tanti fornelli e pochi fuochi d'artificio per un giovane cuciniere che, sotto una coltre di modestia, cela la verve campana degli albori; quel sentimento tutto meridionale di attaccamento al prodotto sincero che non l'ha mai tradito. Cosa c'è di nuovo, adesso, nel menu di Enoteca La Torre? Difficile esaurire il discorso in poche righe. A emergere è piuttosto la coerenza di un modello che ha sempre funzionato.
Pochi ingredienti scelti per una valida ricetta pro-futuro: l'eleganza quale fermo connettore tra cibo e ambientazione; una sala lesta a colmare gli spazi senza invadere la scena; tecnica vera che non ignora la gola; il discorso fluido, e mai pomposo, nell'introduzione di un calice speciale. La seconda stella premia oggi ciò che il team ha costruito ieri, testa bassa e mani in pasta. But the best is yet to come.
Il ristorante
Potrebbe sembrare un'intro iperbolica, se non fosse proprio questa l'impressione restituita dalla villa barocco-rinascimentale che, sin dall'esterno, accoglie i visitatori con la sua allure luccicante. Una doppia sfida per l'equipe, chiamata a traslare la bellezza sul cibo in tuning col bicchiere: lavora così il restaurant manager e sommelier Rudy Travagli, pescando abilmente dalle oltre mille referenze di quella che è la miglior cantina italiana del 2022 secondo le Guide dell'Espresso. Qui, fermo restando il "tesoretto" internazionale, l'accento cade sempre più spesso su realtà propense a trattare uve autoctone in linea con l'ambiente e le sue tipicità; una svolta decisa che Rudy (passato per due templi del fine dining quali il Fat Duck e l'Enoteca Pinchiorri) affianca alla traduzione istantanea delle etichette di punta, dando voce ai produttori meno noti.
All'interno la firma di Anna Fendi Venturini lascia ovunque un tratto lieve ma incisivo, dagli arredi al banqueting, fino alla mise en place. Ci si ambienta presto nel salone dall'ampia vetrata che invade di luce ogni pietanza, quasi un set esposto ai riflettori su cui sfilano a turno le vere star del convivio. A scortarle ai tavoli è il maître Alessandro Nocera, intessendo un’unica trama narrativa dal benvenuto al carrello dei formaggi.
Quanto a Domenico, tiene salde le redini di una cucina che sa andare indistintamente al passo o al galoppo, modulando l'andatura sull'esperienza e il grado di curiosità dell'ospite. Ne discende un approccio "verticale" capace di spartire i sapori su più livelli, come fossero tante parentesi della stessa equazione. E alla fine tutto si risolve in una somma ponderata di correnti mediterranee che interagiscono nel piatto.
C'è l'estetica gentile assorbita da Nino di Costanzo, l'effetto show delle insegne-palestra internazionali (leggi "Alinea"), la geometria absolut scuola Enrico Crippa, l'ingrediente principe di Gianfranco Vissani. Ma, soprattutto, c'è una scala di sensibilità gustativa che rifugge l'automatismo; quel magic touch da cui nascono creazioni totalmente personali, inedite al morso e all'occhio.
I piatti
Tre percorsi, tre dosaggi graduati di conforto e stimolazione palatale. Uno liberamente componibile, con 3 portate a 150€, e due a sorpresa (rispettivamente in 6 atti a 170€ e 9 a 190), cui si aggiunge il pentamenu Battuta di caccia se la stagione lo consente. Quale che sia il prescelto, smorza l'attesa una vivace collezione di finger food autunno-inverno, istoriati nel dettaglio come monili preziosi.
Si va dalla dolcezza lusinghiera della Ricottina con latte di mandorle, amaretto, agrumi e chips soffiata al cacao all'esplosiva nota alcolica della Sfera ripiena di ricotta di bufala con gel di aperol Spritz e arachidi croccanti, per poi (ri)trovare in ottima forma l'Uovo sodo di quaglia mantecato con besciamella, impanato e fritto "alla monachina", dove i semi di sesamo smuovono il boccone in tandem con un rinfrescante gel al tamarindo.
Ma è nel pane che la novità fermenta e prende forma. "Da qualche mese realizzo un impasto a lievitazione naturale con 10 farine diverse di grani antichi", conferma Domenico, mentre dividiamo le attenzioni in parti uguali tra la fetta immersa a battesimo nell'olio pugliese Muraglia e quella imbiancata a nozze da uno spesso strato di burro alle noci.
Non manca l'inciso croccante, con una sottile sfoglia ai semi misti e l'immancabile tarallo napoletano adornato di mandorle. Così, perdendo il senso del tempo (e un po' i freni inibitori), l'aperitivo sconfina adagio nella Tataki di ricciola marinata con pompelmo rosa e soia, in cui il pesce cavalca l'onda di un cremoso di zucca che pareggia bene i conti con lo iodio. Sopra, a svecchiare l'immagine del crudo solitario, una foglia bruna con farina di nocciole che impreziosisce il filetto; a lato, una Crespella di ricciola con salsa al dashi, pompelmo rosa e prezzemolo, sorella minore di stampo flambé che spinge la sensazione citrica coi profumi potenziati dal calore.
Nella terra di mezzo tra frescura e stagionatura, sfida a duello il mare l'Anatra marinata al carvi, cavolo torzella e kumquat. Obiettivo dichiarato, "una maturazione soft, per aggiungere aromi senza sottrarre morbidezza. Poco zucchero di canna nella prima marinatura, di 6-12 ore, e a seguire un bagnetto di 30 minuti in una soluzione di salsa di soia, vino rosso, erbe e spezie. Poi la carne va due settimane in cantina". Il lasso di tempo ideale per servire un salume-non- salume, sgrassato dall'asprezza bonaria del kumquat e circuìto dalla quinoa cotta nel brodo del cavolo campano. Un gemellaggio Oriente-Occidente su base vegetale: poli opposti riuniti nel cucchiaio.
E se a inizio menu il "gusto alfa" è un vivace umami che punzecchia tutti i recettori, le paste esplorano frequenze più profonde, radunando e passando al setaccio una manciata di elementi. Dunque, il Raviolo al cinghiale schiaffeggia le convenzioni con un aplomb tutto suo: nessuna farcia noiosamente uniforme, ma una grana callosa ad alto tasso di mordenza.
"Partiamo dalla sfoglia classica dei ravioli capresi, cotti però in padella secondo l'uso asiatico e deglassati con un brodo di bucce di mela. Il frutto ricorre anche nelle sferette di annurca e nel sidro aggiunto al vino per realizzare la nostra personale aria di beurre blanc, un filo aspra eppur rotonda". All'interno, il nucleo sapido e piacevolmente intenso svela un'attenta lavorazione del cinghiale. "In gergo si dice che 'deve fare l'acqua': solo se passato a secco in padella rilascia la percezione selvatica tipica della cacciagione. Viene quindi stracotto e condito con succo e buccia d'arancia". Al pari della mela, qui lo scarto fa magie: le ossa stesse del suino insaporiscono un fondo che lega il topping al ripieno in purezza.
Il mix & match sul singolo ingrediente prosegue nei Fusilli ricci di mare, arachidi e levistico, con le noccioline impiegate sia a mo' di legante, sottoforma di "maionese", che in veste crunch, dopo una breve tostatura in padella.
"Anche i ricci li uso a tutto tondo, realizzando un fumetto con i gusci da versare sulla base di aglio, olio e peperoncino per la cottura della pasta". La polpa dei frutti di mare, invece, giunge in fase di mantecatura, assieme alla salsa di soia e il "black bergamot" (alter ego del black lime che ci aveva già colpiti in "Come una penna alla vodka e salmone" lo scorso anno). Il partner liquido? Un Gaja & Rey Gaja del 2020, gioiellino delle Langhe di rara avvolgenza che tiene testa a entrambi i primi con un sorso no limits.
Messo da parte il carboidrato, è una prova del nove la Faraona in crepinette al Vermouth rosso, composta di prugne e gruè di cacao, tributo attuale agli antichi fasti capitolini ("già Apicio citava il volatile in diverse ricette, abbinato al garum"). Il metodo aggiunge punti: niente sottovuoto, ma cottura a fiamma diretta nella rete di maiale dopo aver marinato il petto per preservare la succulenza della fibra.
Secondo step sul bracerino, in due tranche: la prima mirata ad arrostire lievemente l'esterno, la seconda a caramellarlo con la salsa di Vermouth. Immaginate un lingotto fondente ricoperto di semi misti e gruè di cacao per lo stacco amarognolo con gli zuccheri della laccatura; aggiungete una crocchetta di interiora, una finta penna ottenuta dalla gustosa pelle della faraona e una tartelletta di grano saraceno che racchiude lo stufato delle cosce. Davanti a voi c'è l'animale totale, reso nobile dalla piuma al cuore.
"Ho sempre evitato le aggiunte superflue per esigenze di scenografia; preferisco scavare a fondo nella materia", spiega Domenico. Un tema caldo che si dipana fino dessert. Oltre all’ormai celebre Babà con crema, amarena e sorbetto di visciole, entra in campo un Pain perdu a cura della giovane (e bravissima) pastry chef Cristina Passini, da assaporare con lo Château d'Iquem Premier Cru Supérieur 1983 proposto da Rudy: coccola fluida e un mondo di fragranze che si specchiano nel piatto, dalla frutta vitaminica agli accenni vanigliati.
Vicino al mini-toast di grano saraceno, cremoso al latte e lime, riluce una zuppetta di estratto di carote con variazione della medesima verdura, più una pallina di gelato alla nocciola che converte in freschezza le sfumature tostate del cereale caldo.
Da perdercisi dentro, letteralmente.
Foto: @Aromi Group
Indirizzo
Ristorante Enoteca La Torre Villa Laetitia
Lungotevere delle Armi, 22 – Roma
Tel. +39 06 45668304
Sito web