Estrarre il meglio dell’ingrediente: un credo, un menu. Andrea Berton sorprende con una cucina sempre più matura: di grande rigore, ma capace di svolgimenti ironici e incentrata sull’esaltazione della materia prima.
Ristorante Berton Milano
Il ristorante
Sono passati già otto anni, da quando Andrea Berton ha aperto il suo ristorante da chef patron a Milano. Un passaggio alla “maggiore età” che sembra aver giovato in tutti i sensi. “Anche se io ho sempre vissuto ogni esperienza come se fosse mia. Forse il fatto di essere chef patron mi induce a sentirmi più responsabile verso lo staff, ma già prima ero allineato perché il sistema funzionasse in modo da ottenere risultati per tutti. Il bilancio è senz’altro positivo, nonostante la gelata del Covid”. Di sicuro il ruolo ha propiziato le nuove esperienze sul Lago di Como, alle Maldive come consulente di un resort dal ristorante subacqueo, che si raggiunge solo in barca, e a Courmayeur al Super G, con cui sono in agenda novità. Anche perché lo chef, prima di puntare le sue fiches sui fornelli, ha disputato qualche gara con gli sci.
Se la sua era già una cucina solida e quasi impeccabile, nella via dei brodi, protagonisti di un menu imperdibile, ha trovato la forza della personalità e un concetto originale, che peraltro in questi anni si è approfondito sempre più. “Era un’idea che avevo in testa da tempo, ma non l’avevo mai messa in ordine. Ho iniziato 6 mesi prima di aprire e da allora tante cose sono cambiate. Le tecniche si sono evolute ed è migliorata la ricerca dell’essenza. Perché si tratta di estrarre il meglio dell’ingrediente, esaltando il gusto con gli strumenti di volta in volta più idonei. Per esempio, l’Ocoo, da cui ricavo un’essenza che bilancio eventualmente con altri liquidi. Di solito monoingredienti, più che cuvée, in cui ricerco una forma di concentrazione controllata, che non pregiudichi l’eleganza, per esempio con derive amare, che vanno sempre tenute a bada”.
“Poi le tecniche possono variare, secondo il risultato da raggiungere. Per esempio, il brodo di cioccolato viene ottenuto in un modo totalmente diverso, con un’estrazione molto lenta: l’ingrediente viene mescolato con l’acqua, inserito in un contenitore sferico e abbattuto. Il blocco di ghiaccio che se ne ricava viene lasciato decantare in un contenitore di vetro con i filtri sottili, che ho fatto produrre appositamente, in modo da estrarre solo il liquido, che scendendo si insaporisce sempre più. Poi ci sono le infusioni, come quella dell’essenza di cicale, che ottengo unendo al brodo dei crostacei un tè dei loro carapaci grigliati ed essiccati, in un’ottica di scarto zero. E i brodi classici, come il consommé per i ravioli, preparato con biancostato e verdure, poi chiarificato con gli albumi. Non c’è niente di più bello che vedere il liquido che si decanta mentre le imperfezioni formano il cappello”.
Sono liquidi che vengono serviti a una temperatura di 40-45 °C, versati al tavolo o in un bicchiere a lato, per ragioni di piacevolezza e per evitare ulteriori cotture. Una formula che si è via via stabilizzata nel menu Non solo brodo, alternando una corsa bagnata e una asciutta, per stimolare la variazione. Poi ci sono il menu Tartufo bianco, che diventerà Tartufo nero, e il Porta Nuova. Costano rispettivamente 145, 300 e 140 euro.
Veicolano una cucina matura e riflessiva, a tutto tondo, capace di svolgimenti ironici, nonostante il conclamato rigore dello chef, e contraddistinta da un’attenzione maniacale per la tattilità del cibo, naturale per qualcuno che ha scelto come focus le liquidità. La scuola marchesiana, ancora evidente nella spinta verso il monoingrediente, che scarta la coazione al contrasto, è innanzitutto garanzia di un sapere solidissimo nella costruzione del piatto e del menu, con margini assai risicati per l’errore. Significa contemporaneità all’interno di un paradigma classico, che proprio per questo sa sorprendere anche nel dettaglio organolettico. Tanto che torna in mente l’anima dello stile classico secondo Henri Focillon: “Come una felicità rapida, come l’akmé dei Greci, l’asta della bilancia non oscilla più se non debolmente. Ciò che mi aspetto, non è di vederla subito pendere nuovamente, e ancor meno il momento di fissità assoluta, ma, nel miracolo di questa immobilità esitante, il tremito leggero, impercettibile, che mi indica che è viva”.
In squadra con Berton ci sono lo chef di cucina Simone Sangiorgi, i secondi Giuseppe Cascio e Matteo Prandi, il maître Gianluca Laserra e il secondo maître Maurizio Perretta. La cantina curata dal sommelier Luca Bertè custodisce 650 referenze per il 70% italiane, in equilibrio fra convenzionali e naturali, con tanti Champagne, sorso prediletto di Berton. “Una scelta che condivido, perché i suoi sono piatti bilanciati che non necessitano di una grossa spalla. Il Metodo Classico funziona quasi sempre. Sui ‘brodosi’ lo usiamo spesso, con l’alternativa di un po’ di tannino per asciugare”. Cosicché il pairing si muove fra un Perlé Nero Riserva Ferrari 2012 e un Barolo Cerretta Davide Fregonese 2016.
I piatti
Gli appetizer già comunicano il rigore della cucina: sono il Tamales di mais con pollo e verdure, il Cono di alga nori, panna acida e salmone, la Tartelletta con zucca e uova di tobiko, la deliziosa Farfalla con anguilla affumicata, soia e zenzero, che sembra sbattere le ali nella volta palatale, con un effetto tattile di tremito alla Focillon. Nel cestino pane a lievito madre, bianco, sfogliato alle olive, grissini e sfoglie al mais.
È già ottimo il Riccio servito nel finto guscio di pane all’olio, che rievoca la classica modalità di consumo meridionale, con spuma di prezzemolo da clorofilla e fumetto per il vegetale, particolarmente ariosa perché ottenuta da pompa di acquario e non sifone, granita di pistacchio a raffreddare e rafforzare la sensazione di sud, rafano per il tremito straniante.
Poi un brodo, quasi che il movimento sia fra dentro e fuori, visibile e invisibile, in chiave di metacucina. È un salto olimpionico quello di prosciutto crudo con trippa di baccalà e fagiolina del Trasimeno, piatto apparentemente semplice che incastra gusti e consistenze contrastanti, facendo perno sul legume umbro. “Per me la fagiolina è fantastica, perché sa di nocciola. Quando l’ho assaggiata ho subito pensato che stesse bene col baccalà, in particolare con la sua trippa, che è gelatinosa sulla farinosità. Poi c’è il brodo di prosciutto crudo, che ricaviamo dalla julienne finissima, rosolata uniformemente in una casseruola ampia, addizionata di scalogno, coperta di acqua e ghiaccio e fatta sobbollire per 45 minuti, in modo che il liquido si chiarifichi in cottura”. Dolcezza e sapidità portate agli estremi, praticamente una spaccata acrobatica. Più semplice il Brodo di funghi (ricavato nell’Ocoo) con porcino alla griglia e bignè rinfrescante alla maggiorana, monogusto minimalista che mira a esaltare l’ingrediente, sempre rispettando lo scarto zero.
Altro “monogusto” privo di contrasti apparenti è la Lasagna di piccione, che si differenzia da un raviolo aperto perché priva di sfoglia alla base. Dove il petto del volatile fornisce un ragù veloce al sugo di piccione e scalogno; la pasta è spolverizzata di Grana finissimo che crea quasi una micropolvere vetrosa; la coscia è a parte. Anche il signor Marchesi, del resto, prediligeva negli ultimi anni un piccione servito tal quale, solo col suo jus.
I contrasti tornano nelle sequenze ragionate fra i piatti. Ed ecco l’Anguilla alla griglia con zucca e mandarino, rispettivamente in fettine sottili grigliate, che rievocano la sfogliatura del pesce, e in crema rinfrescante, con qualche seme di zucca per il crunch. “Un piatto nato dal ricordo delle anguille servite sulle palafitte del Delta del Po, grigliate insieme all’ortaggio”.
Il divertissement è una cosa seria. Lo dimostra la deliziosa Sfogliatella di sedano rapa e caviale osietra, che simula la testura della pasticceria napoletana con la sua avvolgenza croccante. “Dapprincipio avevamo tentato con la patata, ma non era il risultato che cercavamo. Poi il caviale nobilita il sedano rapa, in lamelle e in farcia cremosa, con il suo tocco di iodio”.
È quasi una royale il Brodo di lepre e grappa spray Nonino con foglie di cavoletto e melagrana, dove rivivono in chiave mediterranea le reminiscenze dei trascorsi di Berton in Francia. La tecnica è quasi la stessa, con i fegati e il sangue, c’è il tartufo ma manca il foie gras, la marinatura è alleggerita insieme alle glasse da pasticceria. Nel bicchiere un brodo degli scarti spruzzato di grappa, per i profumi evanescenti sulla potenza gustativa più che per l’alcol.
A preparare il dessert è il Sandwich di formaggio e pera, confezionato con un impasto tipo meringa, un mix di brie e ricotta, la composta di pere per il formaggio a fine pasto. Poi l’acidità del Brodo di rabarbaro, da infusione e centrifuga, praticamente non zuccherato per la massima pulizia, con i suoi tubicini al mascarpone. Chiude il Brodo di caramello, limone e rosmarino, altro divertissement serissimo. Dove il liquido ambrato ricavato dal caramello molto cotto al rosmarino è sovrastato dalla spuma di limone, nelle sembianze di una pinta. Una finta birra, che diventa vera nel piatto, sotto forma di gelato con la sua riduzione e i cereali.
Fantascientifico infine il carrello della piccola pasticceria, progettato da Berton con un architetto e refrigerato a 15 °C, che si apre davanti all’ospite.
Foto: Crediti Marco Scarpa
Indirizzo
Ristorante Berton Milano
Via Mike Bongiorno, 13, 20124 Milano MI
Tel: 0267075801
Sito Web