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Come se la cava la brigata di cucina quando lo chef non c’è? Secondo il critico John Mariani non riesce a dare il meglio di sé

di:
Alessandra Meldolesi
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assenza dello chef in cucina jpg

Gli stessi che cucinano quando ci sono”, rispondeva Paul Bocuse, ma il critico John Mariani non è d'accordo. Ecco perchè.

La Notizia

Chi cucina quando lo chef non c’è? La domanda non è nuova e alla storia è passata la risposta del guascone Paul Bocuse: “Gli stessi che cucinano quando ci sono”. Proprio il grande chef lionese, negli anni ’80, ha rivoluzionato la figura del cuoco, trascinato fuori dalla cucina e overdressed da patron, anzi da uomo d’affari, perennemente conteso fra una consulenza, un surgelato e uno spin-off. Giocoforza assicurare la continuità in cucina attraverso la selezione di brillanti esecutori, talvolta anche qualcosa di più. Cosicché lo chef è diventato anche un talent-scout. Quante abilità in una toque sola.

Paul Bocuse



La competizione fra star chef ha per punteggio il numero di insegne e di stelle Michelin, con il beneplacito di tutte le guide; nessuna sorpresa se poi si fanno vedere di rado e qualcuno inevitabilmente mugugna. Ducasse dice che quando manca, i muri dei suoi ristoranti ne trasudano la presenza. Il suo nome scintilla su una trentina di ristoranti, più caffè e boutique, per un totale di 22 stelle; ma non è il solo. Dietro di lui Jean-Georges Vongerichten conta 45 ristoranti, e poi Robuchon. Imperi su cui non tramonta il sole, spesso estesi su tre continenti.

Jean-Georges Vongerichten



La risposta più in voga è ancora quella, fulminante, di Bocuse: non sarebbe spignattare il compito di un head chef. Ma il dibattito non è chiuso. Qualcuno, come il food writer John Mariani, continua a sostenere che no, non si tratta meramente di sovrintendere e di autorizzare: la presenza del capo tira fuori il meglio dalla cucina, con il suo occhio attento e la sua opera di persuasione. Se davvero è lui il migliore cuoco in brigata, come potrebbe non avere alcun effetto che faccia capolino solo di tanto in tanto? E come si può pretendere che vengano pagate le stesse cifre sul conto, se il lavoro che c’è dietro è differente?


Una cosa sono i contratti milionari, in base ai quali basterebbe nominare un resident chef e farsi vedere un paio di volte l’anno; un’altra sorvegliare la cucina un servizio dopo l’altro. Quanti giorni può trascorrere Alain Ducasse in ciascuno dei suoi ristoranti? Meno di dieci l’anno, se l’aritmetica non è un’opinione. “Forse che i musicisti della New York Philarmonic suonano, se il loro direttore sta giocando a golf?”, chiede retoricamente Mariani.

A suo giudizio non è neppure corretto sostenere che la selezione del personale possa supplire alla presenza dello chef. Le brigate infatti sono estremamente volubili, un resident chef, ma anche un secondo, un cuoco di linea, un cameriere, un sommelier se ne andranno in fretta. Questo comporta l’impossibilità di controllare la brigata in absentia: ad amministrare gli avvicendamenti non saranno gli star chef ma i vertici delle compagnie cui si sono associati. E c’è dell’altro: “I grandi chef vogliono vedere i loro ospiti, domandare loro come è andata la serata, come possono migliorare il ristorante e fare sentire la loro presenza, talvolta carismatica”, incalza Mariani.


Di fatto, in Italia, si moltiplicano gli chef che rifiutano il principio della partenogenesi, come Mauro Uliassi, o presenziano a ogni servizio dell’ammiraglia, vedi alla voce Alajmo; ma il risultato non è meno eccellente laddove il metodo è diverso. Anche in questo caso la regola potrebbe essere che non c’è una regola: è il piatto, come sempre, a parlare.

Fonte: forbes.com

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