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Marco Sacco e la capacità di raccontare attraverso il gusto. Al Piccolo Lago 45 anni sempre al passo coi tempi

di:
Sarah Scaparone
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3 Marco Sacco portrait lago Credits Adriano Mauri 1

Un luogo sempre fedele a sé stesso seppur al passo con i tempi, un ristorante in cui si torna perché possiede una cucina a cui ci si affida senza timore.

La Storia

Entrare al Piccolo Lago di Verbania è come sentirsi a casa. Varcare la soglia del ristorante due stelle Michelin che affaccia sul Lago di Mergozzo significa incontrare il mondo personale di Marco Sacco: un mondo di gusti e sapori, certo, ma anche di viaggi e ricordi che lo chef trasporta in ogni piatto, in ogni sua creazione. Non c’è assaggio che qui, in un locale che proprio quest’anno festeggia i suoi 45 anni di vita, non sia di richiamo a qualcosa, non abbia una storia da ricordare, un pensiero da sottolineare, un momento da suggellare.



Del resto questo fa parte della cucina di Marco Sacco, del suo essere uno chef capace di guardare dritto all’anima delle cose, di saperle comunicare trasmettendo emozioni precise nascoste in ogni assaggio. E questa è sicuramente una parte importante dell’atmosfera del Piccolo Lago, di un luogo sempre fedele a sé stesso seppur al passo con i tempi, di un ristorante in cui si torna perché possiede una cucina a cui ci si affida senza timore.



La cucina di Marco Sacco è rassicurante, nella miglior accezione che questo termine possa trasmettere. Grande tecnica e tanta ricerca sono alla base di piatti fedeli a un linguaggio creativo in cui nessuna nota, mai, esce dal pentagramma; Marco Sacco, direttore di un’orchestra eccezionale, suona una musica che scalda l’anima e che non stona, mai. Complice sicuramente la location che affaccia su uno degli specchi d’acqua più piccoli e suggestivi del Piemonte, ma anche una cura del dettaglio mai fine a sé stessa e sempre pronta a portare oltre.


Basti pensare a una carta dei vini che racconta di 20 mila bottiglie e mille etichette che spaziano dall’Italia al mondo: una carta in cerca di produttori capaci di stupire ben oltre le (pur presenti) visioni di cantine più blasonate.

Marco Sacco Piccolo Lago
I menù raccontano di piatti iconici (dal Lingotto del Mergozzo al Flan di Bettelmatt o alla Carbonara au Koque) ma anche di proposte innovative che si basano sulla costante ricerca gastronomica dello chef. E da quest’anno oltre alle scelte classiche si è aggiunta la possibilità di pranzare a uno chef’s table d’eccezione, da cui osservare il ritmo della cucina e della sua brigata, ma anche dove affrontare un percorso gustativo che unisce tradizione e innovazione e che parte proprio dalla cantina.



Qui con un calice di bollicine, l’assaggio è per una focaccia con il prosciutto della Val Vigezzo, perché i prodotti del territorio sono i primi a essere valorizzati: “Più che di esperienza – spiega Sacco – al nostro chef’s table parliamo di avventura culinaria. Nessun freno e nessun laccio, nessun limite di piatti: la promessa è di non essere solo spettatore, ma attore co-protagonista chiamato a entrare nel nucleo dell’officina/cucina.


Gli ospiti sono invitati a condividere la passione per ciò che creiamo, coinvolti nella finalizzazione di un piatto, liberi di dire la loro, proprio come accade in ogni relazione all’insegna della sincerità e della condivisione”.

I Piatti

Radici



Zuppa di cipolle



E così il viaggio inizia con quella trota affumicata che è preludio di tante portate dedicate ai pesci d’acqua dolce che nella cucina di Marco Sacco hanno da sempre un posto d’onore. Gamberi e Radici anticipano la delicata Zuppa di cipolla e i Bottoni ripieni, ancora una volta, di pesce di lago.

Carbonara Au Coque



Aglio nero



E poi c’è lei, la Carbonara au Koque che è nata venticinque anni fa ed è ancora attuale come Alba Chiara di Vasco Rossi, la canzone giusta da cantare ovunque tu vada”, spiega lo chef d’acqua dolce con un passato da surfista e il viaggio nel sangue. La carbonara qui abbandona lo spaghetto secco e il guanciale romano per trasformarsi in un piatto di pasta fresca piemontese (tagliolino) preparata con un’emulsione di burro di montagna della Val Formazza e acqua di cottura, a cui si aggiunge il prosciutto della Val Vigezzo tagliato al coltello e lasciato in mantecatura. Al tavolo il piatto si completa spezzando il prosciutto disidratato, una cialda al latte, aggiungendo pepe nero e versando sopra i tagliolini l’uovo amalgamato a grana padano, tuorlo, gin e crema di latte.

Anguilla foto Paolo Picciotto



Seguono due piatti molto diversi, ma frutto del medesimo amore per il territorio: l’Anguilla e il Coregone. “Nel mondo – spiega Sacco - esistono due tipologie di anguille che nascono nel Mar dei Sargassi, a nord delle Bermuda, luogo mondiale di riproduzione delle anguille (a parte ovviamente quelle di allevamento). Ci sono quelle piccole che vanno in Oriente e le nostre che diventano capitoni, attraversano l’Atlantico, entrano nelle afriche, raggiungono il Mediterraneo, quindi il Tamigi, l’Europa e vanno a vivere nei fiumi e nei laghi. A dodici, tredici anni, le femmine diventano riproduttive e percorrono il viaggio al contrario, producono l’avannotto e poi muoiono. La particolarità, studiata scientificamente, è che l’avannotto istintivamente ripercorrerà la strada della madre e andrà a vivere in quelle zone da cui lei proviene.

L’anguilla – prosegue lo chef - la troviamo in ogni angolo del mondo, per questo in ogni viaggio che faccio la provo e, a seconda del rapporto che hanno nel farmi mangiare l’anguilla, io capisco la loro cultura. L’anguilla in generale ha tre cose che non sono belle: l’estetica perché sembra un serpentello, è molto grassa, ed è coriacea, dura. Quindi, per il nostro piatto, abbiamo pensato di lavorare su questi tre aspetti rendendoli positivi: l’abbiamo in primis fatta diventare elegante; poi l’abbiamo sgrassata cuocendola alla brace con legno di faggio; quindi ne abbiamo tolto la pelle, le lische a una a una, l’abbiamo richiusa mettendo alloro, aglio, rosmarino, olio evo, e l’abbiamo cotta per otto ore a 80 gradi in modo da renderla morbida. Le tre parti negative le abbiamo quindi cambiate in tre parti positive, in un piatto in cui emergono anche l’agrume, la salsa di agrumi, la patata al limone ricoperta con il peperone e una pallina bianca che è un ricordo personale: il ricordo di quelle mentine che mia nonna teneva nella credenza e che ci dava una volta ogni tanto. Siccome a questo piatto sono particolarmente affezionato ho unito questo ricordo trasformando la mentina in una caramella al lime e frizzantina: sta a ogni commensale decidere se vuole che il piatto rimanga suo per sempre (quindi non mangiandola) o se invece, pur avendolo capito, vuole passare oltre e preferisce pulirsi la bocca”.

Coregone



Il Coregone invece è una sublimazione di questo pesce, un piatto pensato contro lo spreco in cui si mangia tutto di ciò che viene portato in tavola: “Il piatto nasce dallo storico lavoro del pescatore che un tempo, d’estate, calava la rete per pescare i coregoni, non sapendo quanti ne avrebbe presi: se erano pochi il pescato entrava nel mercato delle pescherie, se invece ce ne erano molti, le donne sapevano che era ora di trasformarlo in carpione per mantenerlo anche nei mesi invernali. Quando ero piccolo c’era il momento in cui scattava proprio l’ora dei carpioni: il concetto di questo piatto risiede tutto lì.

Oro degli Inca



Un altro pensiero che torna – spiega sempre Sacco – è il lavarello impanato e cotto nel burro e salvia che si faceva un tempo: lo abbiamo impanato anche noi e cotto in burro chiarificato, ma poiché è un pesce che ha le molecole a grappolo d’uva, tende a lasciare l’umidità e risulterebbe un po’ asciutto e stopposo. Ecco perché la nostra impanatura è solo da un lato, in modo da avere una gratinatura in superficie che lascia la carne semicruda sotto. Il terzo pensiero legato a questo piatto è il fatto del non buttare via nulla, cercando di mangiare tutto, soprattutto la sua parte estetica. C’è qui l’idea estetica del primo cibo messo in bocca (il fulmine che bruciò la carne): ecco, dopo aver filettato e utilizzato la carne, con una spazzolina, cuocendo a vapore, abbiamo pulito completamente lo scheletro per poi farlo essiccare e friggere successivamente per conferirgli una parte estetica impattante. Siamo partiti da una storia di famiglia del Piccolo Lago per poi contestualizzarla nella modernità, nei tempi di oggi: la vedi in ottica diversa, ma in realtà racconti la tua vita. Tutto, nel mio ristorante, nasce così: io racconto quello che facevo da ragazzino e così nascono i piatti”, conclude richiamando alla mente i momenti del passato quando, nella cucina del Piccolo Lago, c’era suo padre.


Piatti dalla forte identità che testimoniano storie personali, ma anche luoghi come nel caso del Flan di Bettelmat che racconta di un “classico” formaggio e pere contestualizzandolo con i produttori della zona e con gli incontri che ne sono emersi per stilare un disciplinare che ne regolasse e tutelasse la produzione.

Ristorante Piano 35




Del resto, Marco Sacco ama fare sistema e unire le persone come accade da un paio di anni sul Lago Maggiore durante il suo evento Gente di Lago, volto proprio a valorizzare il patrimonio ittico del territorio. Da settembre di quest’anno poi, la sua cucina si può degustare anche nel rinnovato Piano 35 a Torino. Qui, dall’alto dei 150 metri che ospitano il ristorante più alto d’Italia, Marco Sacco propone tre differenti menù di quattro o di sette portate. In primis, In Piemonte, omaggio alla grande tradizione culinaria sabauda con piatti iconici come il Vitello tonnato o i Ravioli Torino; il menu Giro d’Italia caratterizzato da una presenza di piatti a base di pesce come le Tagliatelle di Saragolla al riccio di mare o la Rana Pescatrice che combina in un’unica portata sapori di terra e d’acqua. Infine il menu Piccolo Lago a Torino che invece porta in tavola i classici del ristorante di Verbania che qui si possono gustare anche nel periodo invernale, quando invece il ristorante sul lago resta chiuso.

Le fotografie sono di Adriano Mauri

Indirizzo

Piccolo Lago

Via Filippo Turati, 87 - Verbania

Tel. +39 0323.586792

Il sito web 

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