Nascosto dietro Campo de' Fiori c'è un hotel capace di fondere la sapienza artigiana dei vecchi fabbri capitolini e la presenza scenica della metropoli newyorchese anni '30. Al suo interno, Campocori: l’insegna che sta conquistando i romani (e non solo) con una cucina audace e insieme accessibile.
Foto degli ambienti di Giulia Venanzi e Paola Pansini
L'Urbe è piena zeppa di aberghi "pettinati" con le hall immerse in un religioso silenzio effetto chiesa, buffet old style e belvedere incluso nel pacchetto. Ne troverete quanti vorrete grazie al solito scroll down di Booking e poi, magari, se non siete tipi da soggiorni infiocchettati, tornerete a bere la vostra tisana riflessiva sperando di veder magicamente apparire sullo schermo qualcosa di diverso. Le eccezioni sono rare e richiedono almeno un doppio check, poiché se "andare sul classico" è pur sempre facile, testare una meta atipica significa addentrarsi in acque inesplorate per una città testardamente avvinghiata alla sua storicità. Eppure, a volte, fra scorci e reliquie se ne sta acquattato il posticino giusto.


Zona Largo Argentina, pochi step da Campo de' Fiori e un quarto d'ora di andatura turistica per immortalare i fontanoni di Piazza Navona: qui, fra le mete goderecce dell'antico ghetto ebraico, gioca a nascondino l'Hotel Chapter, un contenitore di tutto ciò che non ti aspetti di trovare in una struttura ricettiva ai confini del Rione Sant'Angelo. Tradotto significa stanze con mini-cocktail bar privati, ambienti saturi di opere piacevolmente irriverenti (dalle statue ai graffiti) e gruppi internazionali di ospiti riuniti a fare smartworking con nonchalance nel salotto comune.



Significa anche l'impalcatura di Tristan du Plessis, interior designer capace di fondere l'impensabile: la sapienza artigiana dei vecchi fabbri romani (i "calderari", un tempo attivi nell'omonima via da cui si accede al boutique hotel) e la presenza scenica della metropoli rampante della New York anni '30, scissa a metà fra bronzo strong e velluti carezzevoli. Una premessa che, però, non basta a spiegare il costante flusso giovanile in pellegrinaggio serale, laddove il ristorante interno -Campocori- ha visto crescere in soli due anni una lista di habitué dall'età media curiosamente bassa.


Il merito va, con buone probabilità, all'upgrade dello chef Alessandro Pietropaoli, che dal 2022 ha spinto sull'acceleratore di una macchina potenzialmente tesa al sorpasso degli obiettivi iniziali. Consentiteci, allora, un rapido dietrofront: prima di scorrazzare per le suite, entreremo in quello che lo stesso Alessandro esita a definire un gourmet tour court: "Perché l'ambizione c'è, ma non vogliamo cucirci un'etichetta addosso".

Il ristorante Campocori
All'ingresso sarà tutto un ping-pong di opposti tra squadra e spazi, volti e volumi. Da un lato le gigantografie femminili dal ghigno furbo del fotografo Haris Nukem, la boiserie dark, i tavoli in marmo e i mattoncini nudi e crudi alle pareti; dall'altro le cortesie per gli ospiti di una squadra che ha ben presente quando scattare in uno slancio acrobatico o tirare il freno per un pugno di minuti, pronta a saziare tanto l'appetito conoscitivo dell'estimatore in trasferta quanto la voglia d'intimità della coppietta riservata.



Un messaggio lanciato già al debutto dal pioniere dell’hospitality Marco Cilia (proprietario della struttura) e dal Direttore Generale del Chapter, Jacopo Arosio, nonché trasmesso man mano a un coeso gruppo di rinforzo capeggiato dal Restaurant Manager di Campocori, Sean Mac Donald. Di riflesso, il pairing si presta a esigenze multiformi, passando nello spazio d'un sorso dallo Josko Gravner "emozionale" al twist fruttato sull'Old Fashioned: meno battaglioni di bottiglie e più apertura alla mixology, alcolica e non. Così, convince lo sposalizio del servizio con una cucina mélange -insieme spigliata e accessibile- che Alessandro pare aver plasmato sulle basi non comuni dell'hotel, complici pure i pregressi con Michelino Gioia, Vito Mollica e Yorich Tieche.

Cosa aspettarsi, dunque, dal percorso? A monte, un preimpasto di culture che incuba le origini abruzzesi dello chef con la grafica orientale e i workhorse del metodo francese. Poi, una punta di coraggio che non sfocia mai nel climax di acidi&amari, ma dosa bene le cartucce da sparare nei momenti salienti della cena. Ne deriva una carta inamovibile dedicata ai clienti assidui, giacché "con una rosa di proposte evitiamo di ripeterci, variando spesso i piatti slegati dai tasting menu" e, a seguire, una sorta di macro sulla ricerca di Alessandro, con tre itinerari fissi al buio (Natura, 5 portate a 75€; Emozioni, 5 a 100€; Passione, 7 a 120€).

La cucina
Divanetti bordeaux, luci "gotiche", lampadari bodoir: appena seduto pensi che potresti trovarti in qualsiasi anno eccetto il 2025. Senonché a smorzare l'eclettismo della sala arriva un set di miniature fotogeniche: in primis, il Bon Bon di carbonara, col bang di sapidità del condimento intrappolato in un un cupolotto a portata di dita, e la lingua di vitello, sì, però racchiusa in un Samosa con maionese all'arancia e tzatziki, per aggiustare leggermente il tiro proteico. Breve intervallo lievitati ed ecco che, proprio quando stai spalmando copiosamente il burro di malga col 5% di salatura sulla pagnottina ai 5 cereali, si aprono puntuali le danze di stagione.


È un forest bathing la "Passeggiata nel bosco", con nobili inserti marini da scovare all'assaggio. Del fungo, infatti, compare la testa marinata nel miso, mentre una capasanta scottata nel burro ne rimpiazza il gambo alla base. Azzardo solo apparente, quello di "occultare" il mollusco tra i doni della terra, perché i sentori nocciolati della polpa s'adattano presto al nuovo ecosistema, dialogando con il bis di creme -di ortiche e di aglio dolce- schizzate sul fondo.

Barocco per natura, il Fegato d'oca sfodera doti inaspettate nell'incontro con un fragrante "waffle di panettone", proposto a mo' di controfigura nostrana del Pan brioche francese. In sintesi, Alessandro impiatta il foie gras dopo un bagnetto preparatorio nel cointreau, avvolto da gel al mandarino e fiancheggiato da un'anguilla marinata 30 ore con glassa di aceto balsamico. L'esito? Oltre il carnoso, si apre progressivamente la parentesi agrumata: i canditi del dessert, la persistenza del gel e un drink anch'esso citrico in abbinamento, che chiude il getto di freschezza smussando l'opulenza della frattaglia.

Dal patè animale al garum vegetale è un attimo -giusto il tempo di un rapido cambio di posate. Con lo Spaghetto Antico Romano rivive l'uso del tipico intingolo di acciughe ancestrale, che qui diventa mezzo per un fine doppiamente virtuoso: salvare lo scarto ed elevare i "cibi invisibili", troppo spesso relegati al ruolo di semplici insaporitori.

Parliamo della cipolla ramata di Montoro, utilizzata sia in qualità di estratto per cuocere la pasta, che -appunto- di salsa fermentata (ottenendo un garum total green), fino a farsi polvere bruciata per un'addizione smoky sulla superficie. In pratica, un intero arsenale sensoriale nascosto nel nido di spaghetti, dagli accenti dolciastri al reset amaricante.

Qualcuno ha detto Ramen? Si, ma abruzzese! Prossima corsa, una variante Italian way della celebre "zuppa" nipponica dove i singoli ingredienti alludono ai natali dello chef. Così, d'un tratto parte un rally umami sul circuito regionale, grazie all'agnello presente sia nel consommé, che in forma di spiedo. Lo spalleggiano i tagliolini con farina di Solina (da un grano tenero coltivato sulle alture locali), patate viola, pastinaca, galletti di bosco e tartufo nero, volto ad amplificare la fragranza wild fra il terroso e l'ovino. Salta in area relax il Coniglio come una Lepre alla Royale con topinambur, prugne arrostite e marinate all'umeshu, forse più audace nella presentazione che nei registri d'espressione.

Anyway, la vera sorpresa giunge con il dessert, una Crème Brûlée special edition in cui la sferificazione di banana rilascia sentori tropicali, assommando coccole d'infanzia e memorie di viaggio. La patina caramellata si assottiglia e la sagoma a spirale è un link aperto sull'evoluzione del dolce al cucchiaio, che esplora pure la texture alternativa del cioccolato fondente soffiato.

Code stucchevoli, non pervenute: il finale è imprevedibile, in pieno stile Campocori.
L'hotel, le suite, la colazione


Dove eravamo rimasti? Ah, sì, il cocktail bar privato: coi distillati in fila indiana e i kit di appositi bicchieri, chi vuole al Chapter può prepararsi l'aperitivo comodamente in suite. A scaldare l'atmosfera, una lounge raccolta, gli speakers Marshall e l'illuminazione di Bert Frank e Tom Dixon, che accende i riflettori sullo stesso arredamento camaleontico immortalato al piano terra nelle pause del check-in. Non a caso, la linea resta essenziale, priva di orpelli e incline ai contrasti- vedi la scelta di affiancare il mobilio di artigiani semisconosciuti a pezzi di artisti di grido.


Se, quindi, per gli introversi di turno il piano perfetto consisterà nel rintanarsi in stanza a oltranza, i socialité ozieranno volentieri negli ambienti del Market, caffè -bistrot operativo sin dal mattino per un risveglio slow e via via destinato a trasformarsi in un salotto cosmopolita durante le ore centrali del giorno. Unica insidia, quella di scegliere in blocco fra Avocado Toast con pane ai semi, muffin fondenti e biscotti al burro per la colazione. Nel dubbio, fate tris: lì fuori c'è un'intera città da girare!

Contatti
Campocori Restaurant- Hotel Chapter Roma
Via di S. Maria de' Calderari, 47, 00186 Roma RM
Tel: 06 8993 5351