Tra i fasti dell'albergo con il record di longevità in città, lo chef Domenico Candela allaccia le sue creazioni in un doppio nodo geografico, senza rinnegare la genetica campana. Ma il Grand Hotel Parker's schiude anche altre sorprese, dai piatti-ricordo de Le Muse alla drink list stile "007".
L'hotel
Fa effetto pensare che 153 lunghi anni non abbiano sbiadito nemmeno di un tono le campiture di questo affresco partenopeo, da cui si accede tutt'ora a un passato più vivido che mai. Eppure, laddove un tempo echeggiavano i passi felpati di Oscar Wilde e le idee galoppanti di Filippo Tommaso Marinetti, oggi la storia abita il presente a testa alta, proiettando l'ospite in un tourbillon di scene immortali. No, il Parker's non è solo l'hotel col record assoluto di longevità in città: è un volo mnemonico a sfioro su una terra che sa unire come poche altre calore e bellezza, arte e popolo.


Qui sono giunti, valigie alla mano, penne, menti e volti illustri della cultura du monde, attratti da un palazzo in cui il fasto si sveste della sua algida mise elitaria per sfoggiare un sorriso sincero di benvenuto. Ed è forse proprio l'eleganza in punta di piedi, ad averne marcato il passaggio fra i secoli, da quando George Parker -illustre biologo inglese col fiuto per l'imprenditoria- scelse di rilevare l'antico Tramontano Beau Rivale nel 1870, innestandovi le basi di un lusso direttamente proporzionale al fascino agée dell'edificio.


Così, il suo nome s'è poi sdoppiato fra quello dell'albergo e del ristorante interno 1 stella Michelin, mentre il complesso continua a crescere a vista d'occhio sotto l'ala della famiglia Avallone, accogliendo nuove suite principesche e spazi espositivi a misura di salotto, da poco arricchiti con le opere del maestro campano Antonio Nocera.
Se all'inizio, dunque, sembra di entrare in una grande bolla luminosa, basta salire di qualche metro per godere della preview a pieno campo che ruba rapidamente il cuore agli ultimi arrivati, mostrando loro il volto migliore di Napoli.


Il ristorante Le Muse e il cocktail bar
Tanto frequentemente immortalata, quanto ardua da ritrarre, la zona lounge del sesto piano sfida gli interni in un duello ad armi pari, con la sua passerella bronzea su cui sfilano sornione le statue delle sette Muse. Sono forse loro a ispirare i workhorse di zona torniti con mano ferma da Vincenzo Fioravante, cuoco del locale open view che aderisce alle vetrate per convogliare gli sguardi all'unisono sul Golfo.

Ed ecco che, negli stessi ambienti della colazione -dove la carta viaggia veloce dai bocconcini di mozzarella ai lievitati caldi di forno, fino alle marmellate di agrumi- il pranzo chiede spesso il pane per l'intingolo, spostando l'asse sulle ricette genuine della "mamma Matilde". Che sia un incontro ravvicinato col Polpo arrosto, salsa di provola, friarielli e pomodorini semidry o un primo approccio alla bouillabaisse sugosa della Ricciola al forno con topping di basilico, vi si colgono intatti i profumi rionali, di cui lo chef stilla l'essenza in un alambicco contemporaneo.


A imbarcarsi in tratte di lungo raggio è invece la drink list -non uno snello libricino, ma un tomo intero- da sfogliare una rampa più su, in vetta al rooftop. Parola d'ordine? James Bond, nell'insolito ruolo di comprimario, poiché i cocktail riprodotti sono ben 280 -ciascuno legato a frame, personaggi o ambientazioni dei suoi numerosi film. L'impressione è di sedersi dentro a un ciak, sui divanetti tattici della Terrazza Efebo, vegliati dallo sguardo impassibile dell'omonima scultura (una riproduzione del guerriero pompeiano del 20 a.C), mentre il bartender Antonio Boccia dirige il cast, placando la sete del pubblico curioso.


Entra quindi in azione un superbo Casino Royale, riadattato con l'aggiunta dello Champagne Blanc de Blancs alla solida coppia gin-Maraschino, o ancora l'esotico Goldeneye, che occhieggia al rifugio giamaicano dello scrittore Ian Fleming esaltando il rum con Aperol, succo d'ananas e frutto della passione.


Sorso libero pure per i fedelissimi del Campari, presente in un portfolio di varianti estive che danno corda agli snack dello stesso Fioravante, spediti dritti dalla cucina. L'unico rischio è quello di salire su una giostra tentatrice di gamberi in tempura e parmigiana croccante, dimenticando l'orologio fin quando il Vesuvio sarà ammantato dal buio. Proprio allora si aprono le porte del George, l'astro notturno dell'hotel.


George Restaurant
Domenico Candela sembra aver affinato un'attitudine spontanea a remixare i cibi pop sulla traccia della modernità, trasformando il terreno di scontro fra consuetudine ed eccezione in una sorta di passaporto gustativo. Dote non scontata, visto il peso dell'arsenale tecnico acquisito Oltralpe, che oggi spara i suoi colpi a intervalli regolari nel bel mezzo della cena.

Eppure, a monte c'è una matrice autoctona pronta a fissare l'identità dei piatti, arrotolati sul codice genetico campano. Forte di un decennio in Francia accanto a maestri quali Alain Solivérès e Yannick Alléno -ma anche di trascorsi nostrani con Antonio Guida ed Enrico Bartolini- lo chef allaccia le sue creazioni in un doppio nodo geografico, convogliando la scelta su altrettanti menu: Progresso Mediterraneo e Viaggio Goloso, più l'opzione a base vegetale.

Il sorso rafforza i legami grazie al pairing dell'abile maître Enrico Moschella, che pesca chicche insolite da una selezione "blindata" di 135 cantine (pari al numero civico dell'hotel) e 531 etichette, a ribaltare simbolicamente la cifra.


Nei cadeaux spezzafame brilla l'ingegno partenopeo: c'è la mini-pizza Margherita, un nembo d'impasto cotto interamente al vapore su cui aleggiano crema di mozzarella e Parmigiano; il Takoyaki di Polpo alla luciana ripieno di pomodorini, olive nere e capperi, dove la scocca simula la polpettina giapponese e il nucleo ha l'appeal godereccio di un pranzo domenicale; la finta oliva di "rinforzo", un bite liquido che spande in bocca il sapore della tipica insalata napoletana azzerando i residui dei finger precedenti. Tutto servito nelle ceramiche colorate prodotte dalla Cooperativa Nesis, che aiuta i giovani del carcere dei minori di Nsida ad inserirsi nel mondo del lavoro.


Sfida le papille l'Ostrica Tarbouriech, servita volutamente tiepida e glassata con estratto di pomodorini di fiume, kiwi fresco e fermentato: l'accortezza termica che innesca un gioco a somma zero sulla salinità, resa amabile dal morso crock della tempura al curry verde.

Le risponde a tono, instaurando un triumvirato di frutta, la Scaloppa di foie gras con ciliegie del monte raccolte sul Vesuvio (al naturale, in agrodolce e sotto sale), più un topping di Nocciola Tonda Gentile fresca e caramellata. Si accompagna al Riso kome cotto in foglie di sakura no-ha, per un'imboscata odorosa in terre orientali, e al Cidre premium di Cédric Le Bloas, sidro della Normandia composto da un 75% di mele "tanniche" e da una piccola quantità equilibrante di pomi dolci-aciduli.

Il "primo primo" stende in tavola un velo di suspese, preceduto da un gambero rosso al naturale con relativa bisque, olio al dragoncello e jus di lampone fermentato. Poi arriva lui, il riso cotto in una duplice estrazione ultraconcentrata di limone con le foglie stesse dell'agrume. E se inizialmente l'acidità sfreccia spedita sul circuito degli amidi, la frena un cenno lieve: quello del crostaceo che non scompare mai dal mirino dello chef, esposto nudo in forma pura.

Superata la prova longevità, dopo 5 anni in carta fa ancora tendenza lo Spaghetto Pomod'oro, con 7 gusti + 1 a stampare sul palato una sensazione netta e inedita. Dal San Marzano al Corbarino, la scala di saturazione culmina in un assoluto di Sud, complice il fake Parmigiano che in realtà è olio al basilico solidificato. Ma il gioco va oltre: l'ospite viene, infatti, sfidato a "trovare l'intruso" in una sorta di enigma sensoriale, realizzando che l'ottava varietà ha solo l'aspetto dell'ortaggio. Spoiler concluso: lo scoprirete solo assaggiando.


È invece un "piccione viaggiatore" il volatile in due servizi scelto per chiudere la tranche salata. Arriva avvolto da un turbante di spaghettini di Gragnano che trascinano cosce e quinto quarto nel loro vortice marino, già innescato con l'emulsione al garum di alici di Cetara e il caviale sevruga: come un'onda salata in pieno viso prima della bonaccia.
L'attracco marcia sulle note smoky del petto affumicato, ed ecco la carne in primo piano: bietole, ginepro e salsa di more fermentate ad attutire l'impatto col terreno. Una promessa di umami dal vigore quasi arcaico.

Petto di piccione affumicato con bietole colorate, ginepro e salsa di more

La foto-ricordo di fine viaggio ha il filtro caldo di Citrus, summa del frutto che più di ogni altro riesce a colmare il vuoto affettivo dei campani "fuorisede". L'agrume colto, spremuto, lavorato ed elevato alla sua idea totale, in 7 diverse varietà e trame sovrapposte. S'infrange la cialdina al cioccolato bianco, si pesca una madeleine al finger lime, ci si perde definitivamente nel cremoso ai limoni freschi e canditi e in un dissetante sorbetto allo shiso rosso e yuzu. Non il solito epilogo; piuttosto un affondo coraggioso per la verticalità d'aspro e d'amaro, con gli zuccheri timidi a far capolino. Napoli dorme, noi ancora no: sulle labbra il sapore di una gita in Costiera.

Indirizzo
Grand Hotel Parker's - Le Muse- George Restaurant
C.so Vittorio Emanuele 13580121 Napoli (Italy)
Tel ristorante: +39 081 761 2474