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Gianluca Gorini: un preciso stile gastronomico distillato negli alambicchi del pensiero

di:
Alessandra Meldolesi
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gianluca gorini un preciso stile gastronomico distillato negli alambicchi del pensiero 2970

Un grande di domani, allievo prediletto di Paolo Lopriore, da pochi mesi Gianluca Gorini offre un’interpretazione personale della rivoluzione del Canto dai fornelli delle Giare, sui colli romagnoli prospicienti il mare. foto Lido Vannucchi

La Storia

La storia di Gianluca Gorini


Schivo, sorridente, esile e guizzante come un elfo: Gianluca Gorini non sembra avere nulla in comune con il maestro Paolo Lopriore, fin quando non allaccia il grembiule e non aziona la Greenstar, tecnologia virale che dalle mura del convento di Maggiano si è propagata pandemicamente nelle cucine più avanzate d’Italia.


Dai quattro anni di entusiasmo, studio e passione, polvere da sparo e allori trascorsi a Siena, ha distillato con lame di ceramica la sua cucina pulita e inquieta, dove la concentrazione non si fa al Rotovapor ma negli alambicchi del pensiero.


Un allievo sì, che però in quel cono d’ombra ha trovato il comfort per poter ripartire. Basta guardarlo negli occhi per cogliere la scintilla di una conversione irredimibile. Dedizione, sedizione, seduzione. La bussola punta testarda nella stessa direzione. E dire che fra i due corrono appena nove anni: abbastanza perché lo specchio della cucina si increspi nella generazione di una nouvelle vague.


Prima del Canto per questo trentenne di Pesaro c’erano stati la scuola alberghiera, la trattoria di famiglia con la mamma ai fornelli e soprattutto altri quattro anni con Paolo Teverini, cattedratico della materia prima; in seguito un breve passaggio al Poggio Rosso con Francesco Bracali, dove per la prima volta ha assunto le responsabilità di “resident chef”, e l’incontro con Claudio Amadori, patron, sommelier e architetto delle Giare, intenzionato a fare compiere al suo elegante locale il grande salto nell’eccellenza.



E il buon sangue non mente, è proprio il caso di dirlo. Perché se è vero che lo stato maggiore della nostra cucina si sedeva con una certa frequenza ai tavoli del Canto, per prendere le misure alla rivoluzione in corso, e che da qui si sono dipartiti i fil rouge trainati da un armento di cavalli di razza, da Piergiorgio Parini a Lorenzo Cogo (tanto che Lopriore non è solo lo chef più sottovalutato, ma anche il più influente d’Italia), nessuno come Gianluca possiede l’integrale e soprattutto lo spirito della casa. Un tesoro raro, considerato il vizio del turnover che precarizzava la brigata.


Quella che ne consegue è una chirurgia gentile che disseziona la lezione del Canto. Matericità; tecniche in parte francesi, in parte empiriche e contemporanee; una pulsione verso la verità dell’ingrediente di stampo più nordico che spagnolo (l’unico “additivo” in uso è l’agar-agar); costanti stilistiche precise e un ancoraggio tanto stabile quanto volatile alla tradizione italiana, l’ancora pesante sul fondale e la catena interminabile per assecondare le correnti capricciose dell’immaginazione.

 

I Piatti


Al centro resta l’ingrediente, una magnifica ossessione condivisa da Amadori. Largo quindi a verdure, erbe e fiori sempre di giornata, coltivati nell’orto di proprietà dalla moglie del patron, che serve anche in tavola; e poi il pesce dell’Adriatico, i conigli di cortile, i maialini neri del Brisighellese e tanto altro ancora. Senza pesare troppo sul portafogli, visto che il menu degustazione non supera i 70 euro.



Si comincia senza choc, con una rielaborazione di vongole e ceci, in questo caso uniti ad acqua di lemon grass e aria di rosmarino (ottenuta naturalmente grazie alle resine), e con i gamberoni al vapore, cocomero, finti semi di oliva nera e mimetici dadi di Campari, sul consueto canovaccio dolce/amaro.


Ma si entra nel vivo con il baccalà non troppo dissalato in brodo di acetosella (un centrifugato lasciato lungamente decantare per ottenere una concentrazione naturale), capperi, germogli di bieta e uvetta, sorta di cliffhanger che avvinghia sapidità e acidità, entrambe sparate alla massima potenza e in fondo complici nel gioco gustativo.


Le papille hanno un attimo di tregua grazie alla delicata insalata di coniglio, cotto dolcemente in forno, disossato, sfilacciato e marinato per ovviare alla secchezza intrinseca, cosparso di cardamomo nero in polvere per metaforizzare la brace, scortato dal crescione e orientalizzato (come le vongole) da profumi di lime, miele e soia.



Dai primi vengono nuovi affondi, che si tratti dei meravigliosi mezzi paccheri con polvere di acciughe del Cantabrico, tartufo estivo, fiori di zucca, formaggio di fossa e una spruzzata di Marsala, radicalmente crudisti nell’assemblaggio di ingredienti integri, cuciti a sorpresa dal filo dell’ossidazione, o dei tortelli di melanzana affumicata, in omaggio al Maestro, con cuori di pomodoro e caprino.


Le triglie sfilettate e ricomposte, così preservate dalla fragilità della loro polpa finissima, sono servite su uno specchio di centrifugato di peperoni (che ricorderà a qualcuno l’astice di Marchesi), più olive nere, profumo di agrumi e fiori di finocchietto, a testimoniare lo studio della tradizione colta e regionale.


E ancora il superbo maialino nero, sgrassato dalla mostarda di mandarino pungente e agrumata, che dialoga con la punta leggermente piccante del macis.



Si chiude con fuxia, sapore-colore ipervitaminizzato: un letto acido di rabarbaro a spingere il freschissimo sorbetto di lampone, strutturato dall’accostamento con la mousse di cioccolato bianco alle mandorle, untuosa e amarotica.

Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi - settembre 2013


 


 

Indirizzo

Ristorante Le Giare

Via Al Castello, 368 – 47020 Montenovo di Montiano (FC)

Tel. +39 0547 51430


Mail: info@legiare.com


 

Il sito web del risrante le giare



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