Il più grande cuoco pugliese riflette il territorio nello specchio delle sue esperienze asiatiche. Ed è un sud (anzi un sud-est) che non si era mai visto.
La Storia e il Ristorante
Ha qualcosa di solenne, Angelo Sabatelli,
nelle salette del suo nuovo ristorante. Finalmente una location all’altezza del suo incomparabile talento, quasi il lieto fine di un’Odissea che l’ha sbattuto qua e là per oltre vent’anni, in balia di sirene con gli occhi ammandorlati. Il pavimento in chianca lucidata dice che siamo nella Puglia profonda, per la precisione a Putignano, fra la città metropolitana di Bari e la zona turistica di Alberobello, non lontano dal mare ma fuori dal bailamme agostano. Mentre le mura cinquecentesche sono quelle della residenza del marchese Giulio Romanazzi Carducci, forse il sangue più blu del Tavoliere, discendente di una stirpe che alla città ha lasciato in dono un palazzo e un museo.
Questo non è da meno, con la facciata in pietra bianca enfatizzata dall’illuminazione e dalla targa dorata delle Soste, che balza agli occhi in un centro peraltro bellissimo e praticamente intatto. Le pietre vive e le volte altissime erano quelle delle scuderie, già adibite a ristorante e rimaneggiate da Sabatelli a partire dal gennaio 2017, con luminarie moderne in contrasto. Tanto che il luogo calza stretto come un guanto al purismo pugliese dello chef, tanto classico quanto contemporaneo, in nuance come le vibrazioni del bianco in crema.
L’apertura è caduta nella primavera inoltrata e ha tenuto a battesimo una rinascita anche stilistica, con piatti sempre più maturi, sicuri e definiti, che lasciano il segno. Spesso one stroke, quali piccoli miracoli di una semplicità disarmante.
Lo Chef
Prima del meritato nostos, la peregrinazione di questo self-made chef, praticamente autodidatta, era passata per Roma, che lo aveva irretito per 6 anni al Piacere, da Giacomo e al Convivio, dove aveva conquistato la prima stella con piatti quali le polpette di trippa all’astice con fave e pecorino, le orecchie di maiale ripiene alle animelle o un pionieristico fegato di rana pescatrice, giudicati da taluni “troppo avanti” per i tempi.Poi l’Asia, durante 12 anni spesi in cinque stelle lusso a Jakarta, Hong Kong, Shangai e alle isole Mauritius. “La cucina che servivo era italiana, ma fuori dal lavoro mi piaceva assaggiare le loro specialità. Così quando sono rientrato, non trovando alternative valide, mi sono cimentato ai fornelli per la mia famiglia e ho constatato che mi riusciva con grande naturalezza; così ho iniziato a usare i loro ingredienti per valorizzare altre preparazioni ed era come se fossero miei, da sempre. Oggi fanno parte di quello che sono: se ho bisogno di una sapidità complessa ricorro al miso, per un’acidità particolare alla salsa ponzu. Mai a caso, però: la mia non è fusion, perché la base resta geolocalizzata in Puglia. La contaminazione mi serve piuttosto per rielaborare la tradizione”.
“Le mie esperienze riguardano perlopiù la cucina cinese, ma sono convinto che sussista un’affinità profonda fra la cucina italiana e quella giapponese, per i valori della freschezza, della leggerezza e della pulizia. Con il prodotto al centro. In Asia del resto ho avuto occasione di viaggiare e ho affiancato tanti giapponesi”. Con lui l’inseparabile Laura Giannuzzi, compagna nella vita e sul lavoro, guida della sala già a Monopoli, dopo il rientro nel 2010.
Non è retorica dire che tutto ricomincia ogni mattina, al momento di fare la spesa in un triangolo compreso fra Putignano, Polignano e Monopoli. “Me ne occupo personalmente, anche due volte al giorno. Preferisco acquistare piccoli quantitativi, quasi casalinghi, perché tutto sia sempre fresco e anche per minimizzare lo spreco. Il sottovuoto e l’abbattitore li riservo per i casi in cui sono assolutamente necessari. Ma non mi pongo limiti: il mio è un chilometro vicino, piuttosto che un chilometro zero. E non mancano le eccezioni, perché sono sempre curioso di assaggiare e di provare. Quindi il manzo lo faccio arrivare dal Friuli; gli agnelli dall’Irlanda o dalla Scozia, se manca il capretto nostrano; il piccione dalla Francia, perché è più tenero, delicato e saporito, con la pezzatura giusta. Anche l’ispirazione è spesso territoriale, vedi l’acquasale, il pancotto o le orecchiette + 30, con il ragù cotto 30 ore e la fonduta di Canestrato”. Piatti che ormai sono signature, al pari della lasagnetta aperta di seppia con allievo, limone e mandorle o delle ostriche con fave e cicoria. Ma la gran parte della carta gira, “altrimenti sarebbe come cucinare in manette”.
I Piatti
A Putignano la terra vince sul mare, ed è così che il vecchio menu di pesce ha ceduto il passo al vegetariano Verde ma non troppo (70 euro), che sta regalando grosse soddisfazioni allo chef. “Io stesso mi sono stupito del risultato ottenuto, lavorando su salamoie calibrate, che consentono di preparare il vegetale in purezza. I carciofi sono stati i primi che ho cucinato quasi senza grassi, semplicemente glassati alla fine. E ogni giorno posso variare leggermente la ricetta, perché magari l’ortaggio ha preso il freddo ed è cambiato, quindi va tagliato o cucinato diversamente, come ho imparato in Asia, dove in mancanza di prodotti italiani idonei, era giocoforza destreggiarsi”.Poi ci sono le 8 corse dei Classici a 100 euro e le 10 Emozioni extraterritoriali, mano libera a 120. In accompagnamento la carta dei vini è uscita ampliata dagli scatoloni di Monopoli, grazie a cospicue addizioni francesi. Si compone per il 30% di referenze regionali e si sforza di coprire un po’ tutti gli stili; più 200 distillati per il fine pasto. Nel cestino del pane la girella di pan brioche alla barbabietola, poi i grissini alla cipolla e la pagnottella ai 5 cereali.
Gli appetizer spaziano: ci sono il datterino in trompe-l’oeil, nato dalla pappa al pomodoro preparata da un cuoco per il personale, racchiusa dallo chef in una gelatina al basilico, e il ravanello in agrodolce con miso e katsuobushi, sul modello del daikon giapponese; la sfera di melanzana glassata al formaggio con polvere di pesto e le olive dolci nature, straordinarie al punto da reclamare “zero cucina”.
Lo squisito lampascione fritto secondo la tecnica delle patate soufflé, in due bagni d’olio a temperatura crescente, nel suo involucro croccante di farinella di ceci, aperto come una cresta di gallo per accogliere il vincotto di fichi e la sfera di caciocavallo podolico frullato con albumi e fritto, spolverizzata di limone nero per l’acidità balsamica.
Di nuovo la farinella di ceci tostati, specialità di Putignano, utilizzata anche per una zuppa-scarpetta istantanea con il pennello da tè verde, qui in forma di meringa vaporosa e la tartelletta di grano arso con pomodoro arrosto un puntino di ricotta forte (“un ingrediente che volevo usare, difficilissimo da addomesticare”), che basta per riempirla di gusto.
L’acquasale è un omaggio alla ricetta tipica, presentata in forma moderna, quale sfera composta degli ingredienti di rito, lasciati marinare per un paio di giorni, più gel di pomodoro e di cetriolo, olio nero, in polvere e gamberi crudi. Il colpo di genio sta nel rispecchiamento tutt’altro che meccanistico sul piatto, dove fronteggia uno scampo in tempura con maionese di agrumi e un furikake (condimento secco giapponese a base di avanzi di verdure, pesce e semi) ripensato come crumble di cialde di riso aromatizzate al pomodoro, agli spinaci e alla barbabietola, sesamo nero, bianco e katsuobushi. Freddo e caldo, oriente e occidente, dolcezze e acidità a confronto. Da una parte il passato, dall’altra il presente.
Poi un’altra variazione, questa volta in 3 tempi: la capasanta, perché il territorio non è un dogma. “Anzi io giro, compro, provo. Ho sempre voglia di assaggiare e sperimentare”. Prima la noce spadellata con perle di tapioca scottate nel brodo di alga dulse e wakame; poi la tartare scondita con battuto di ananas al sale, sul modello del citron confit maghrebino, piccolissimi crostini, limone nero e foglie di capperi, per l’abbinamento di tradizione; infine il brodo a ripulire, da gustare nella conchiglia. Viene preparato con lische di pesce tostate a secco, come fossero ossa per un jus, sakè misto ad acqua e abbondante zenzero.
Ed è forse giunta alla sua forma definitiva la melanzana, cotta secondo la tecnica cinese: una volta pelata, viene fritta, bucata, condita di extravergine e salsa di soia, poi infornata fino a cottura e irrorata a più riprese con la salsa, quindi pressata per favorire la fuoriuscita del liquido, che tramite il freddo viene separato dall’olio, legato e usato per laccare durante il servizio. Per una consistenza finale di flan. Viene dalla Cina anche l’idea di guarnirla con pesci essiccati, nella fattispecie gamberetti e capasanta sfilacciata, dal gusto intensissimo, ricontestualizzati dall’olio di olive nere e dalla crema di prugne speziata; con la chiusura di nuovo corroborante dell’infuso di crisantemo, aromatico anziché dolce. “È un piatto nato dalla voglia di tentare qualcosa di diverso con i frutti di mare, con cui traffichiamo tutti i giorni in cucina”.
Il carpaccio di manzo, dolce e delicato, è servito su un battuto di lemon grass e peperoncino appena percettibile. Fa da sponda ai ricci, spinti dal bergamotto per l’aromaticità e per l’amaro. Più comfort il ragù di coniglio legato con il suo fondo e poco pomodoro, rivestito di purè di patate e cosparso di tartufo in un ripescaggio della parmentier, che cita il classico coniglio e patate. Di fatto un cuscino dolce fra due umami.
Ma sono memorabili per centratura cartesiana del gusto i ravioli ripieni di peperoni alla griglia e mollica, serviti con succo di olive leccino estratto in pentola a pressione, olio nero alle bucce di peperone e olive essiccate per la sensazione di griglia. Il ricordo di un’insalata estiva in equilibrio dolce/amaro. Di nuovo comfort, secondo le intermittenze della casa, il risotto con purè di zucca al forno passata al burro, tartufo nero ed erborinato di Altamura a punteggiare.
Il carrè di agnello è servito con polvere di pancotto e rotolo di patate o con crosta di carbone, zucca e marasciuolo. Con l’alternativa del generoso ramen di piccione, ricontestualizzato in Puglia attraverso i troccoli, le vongole e un brodo speziato.
Leggerissimo il dessert, un millefoglie con zabaione ghiacciato e spuma di cioccolato bianco alla vaniglia su gel di Marsala. La piccola pasticceria è offerta in dono dentro scatole, per l’effetto sorpresa: quindi il marshmallow al limone, la gelatina di frutto della passione, il canelé classico, il latte di mandorle da bere, 3 cioccolatini al cioccolato bianco e violetta, cioccolato al latte e caffè, cioccolato fondente, whisky e tabacco.
Foto di copertina di Valerio Napoletano
Indirizzo
Ristorante Angelo SabatelliVia S. Chiara, 1, 70017 - Putignano, BA
Tel. +39 080 405 2733
Il sito web