Un ristorante che è divenuto una vera e propria istituzione italiana a New York, capace di mettere insieme la seconda cantina più preziosa del mondo con 85.000 bottiglie. Alle pareti opere d’arte inestimabili come un Mirò originale all’ingresso e una cucina italiana che mette tutti d'accordo.
La Storia
Upper East side, fra la quinta e la Madison avenue. Nel mosaico di eleganti townhouse, una palazzina ottocentesca avanza sulla strada i suoi fregi marmorei: è qui che Giuseppe Bruno, fra i protagonisti della ristorazione newyorkese, manteca uno dei migliori risotti del mondo. La sua è una cucina italiana in versione fine dining: abbastanza per strappare il titolo di Honoree al Columbus Day, festa degli italiani in America, con i fratelli Gerardo e Cosimo, che portano avanti un ristorante stellato di pesce, il San Pietro a Midtown.Il tono si capisce già all’ingresso, dove a sorprendere è un Mirò originale; poi due ambienti, una sala con un caminetto e la veranda, decorata con opere di Sandro Chia, amico della casa. “Perché sono sempre stato circondato da artisti e il Metropolitan Museum organizza qui i suoi eventi: l’arte è importante perché mi calma”, dice. La capienza indoor attualmente consentita è pari al 25% dei coperti, che presto diventeranno il 50. Sul tavolo, immancabili, i fiori freschi, ricordo di una mamma contadina che li piantava a bordo campo.
Scendendo la scala, lungo la quale prosegue la collezione d’arte, si approda alle cucine e soprattutto alla cantina. È da una parete tappezzata di bottiglie, come una porta in trompe-l’oeil, che si accede a un caveau da 15mila bottiglie, più altre 70mila in deposito. Un piccolo esercito di guerrieri di vetro: Château d’Yquem, Cheval Blanc, Romanée Conti, Château Lafite, Latour, Pétrus, oltre ai migliori californiani. Poi l’Italia con i super tuscan, anche in grande formato, e vecchissime annate di Monfortino, fino al 1948, tutti negli astucci in legno; e Madeira indietro fino al 1900. “Solo in questo frigo c’è un milione: ai professionisti che passano dopo aver chiuso un deal, piace stappare qualcosa di importante, da una magnum in su. Anno dopo anno, ho continuato a mettere da parte qualche bottiglia. Ero un collezionista di macchine, ma mia moglie ha detto basta. E sono stato il primo italiano a investire nel vino francese, poi tutti mi hanno seguito. Perché il vino e l’arte non hanno confini. Non è vero che qui non capiscono la qualità, il palato è cambiato: bevono vino francese per le feste, ma il nostro è per tutti i giorni. Ed è in assoluto il più venduto”. A raccontarlo sono 3 sommelier, guidati dal veterano Renzo Rapacioli, premiato da Wine Spectator con il Grand Award nel 2018, 2019 e 2020. La carta dei vini del Sistina, al pari della sua collezione d’arte, viene considerata un’eccellenza mondiale: la seconda in assoluto dopo il Mosaic di Pretoria.
I piatti
Ma al Sistina si viene innanzitutto per mangiare la cucina italiana di Giuseppe Bruno, uno che si alza ogni mattina per scegliere al mercato i suoi prodotti di stagione, la selvaggina, il pollo senza ormoni, l’agnello che non ha brucato; poi dopo il meeting con la segretaria va in riunione con la brigata per menu irripetibili. “All’inizio in cucina c’era mio fratello Antonio, che poi è andato al San Pietro. Aveva un tocco speciale. Ma nostra madre ci aveva sempre mostrato come fare e in Italia la cucina è di tutti, così ho deciso di buttarmi ai fornelli. Ho molto amore per quello che faccio e quando si lavora con amore, escono cose fantastiche. So cosa vuole mangiare la gente, che a New York è molto difficile, perché ebrei e musulmani hanno le loro preclusioni. Ma io so come accontentarli: nessuno conosce gli americani come me. Ho approfondito anche gli aspetti nutrizionali, le diete e le allergie, per soddisfare al meglio i clienti. La mia cucina è sartoriale e personalizzata, mai ripetuta e per questo piace”.Giuseppe arriva dalla Campania, per la precisione da Battipaglia, dove studiava amministrazione all’alberghiero, prima di seguire in America il nonno, che lavorava nella casearia, all’età di 17 anni. Tuttavia quella che serve al Sistina, aperto nel 1983, è una cucina italiana in senso lato, che non rinuncia al fegato alla veneziana o al risotto allo zafferano. “Perché io studio, leggo. Tutto dipende da quello che c’è in quel periodo: tartufo bianco? Tartufo nero? Ogni settimana faccio arrivare i limoni da Sorrento, le castagne da Avellino, i porcini, il branzino che preparo al sale… Faccio una milanese deliziosa con prosciutto e pecorino, che piace a tutti; oppure, da quando abbiamo aperto, l’insalata di mare al vapore, con i pesci cotti al momento dell’ordine. Poi c’è il mio pesto alla trapanese, con cinque tipi di frutta secca, che il dottore mi ha sconsigliato di tostare. E durante il lockdown ho approfondito il pane, cercando farine da grani antichi. Siccome gli americani sono golosi di carne, ho in carta la bistecca di chianina con la salsa verde, l’ossobuco con il risotto alla milanese, l’agnello in crosta di pane alle erbe con una piccola torta di patate. L’importante è metterci sempre molta attenzione, come se si trattasse di un bambino che non cammina, cui stare sempre vicini. L’accudimento è lo stesso. Non diamo agli altri quello che non vorremmo mangiare”.
Il Sistina è famoso anche per il suo parterre de rois. “Ricordo Obama: quando è passato, ha detto che la cucina italiana migliore si gusta solo in Italia. Poi ha riconosciuto che la mia era altrettanto buona. Robert De Niro ormai è un amico; poi c’è Éric Ripert di Le Bernardin, cui bisognava servire un dolce all’altezza. Io presi una fetta di panettone, la passai sulla griglia per sprigionare i profumi e ci misi uno zabaione alla Malvasia, improvvisando. Perché i francesi sono bravi con le mousse, ma noi abbiamo i lievitati”.
Nel 2008 è sopraggiunto il Caravaggio, secondo ristorante ubicato a pochi blocchi di distanza, più moderno ma altrettanto chic. “L’ho aperto perché una sera sono andato a teatro ed erano tutti vestiti male. Ma io volevo ricreare a New York l’atmosfera di un tempo, con le donne elegantissime ai tavoli”. Anche qui le pareti sono una galleria d’arte, con opere di Frank Stella e Henri Matisse; mentre la cantina è tripla, italiana, francese e dal resto del mondo.
In tutto i dipendenti sono 120, comprese due sfogline, per 150 coperti al giorno, completi a pranzo e a cena da quasi 40 anni. “E c’è ancora chi passa per chiedere meatballs, perché il 99% della cucina italiana a New York è bastarda. Ci sono stati tempi in cui chiunque avesse i soldi prendeva un cuoco di qualsiasi nazionalità e faceva un finto ristorante italiano, mettendo burrata e prosciutto dappertutto, aglio e cipolla a palate. Poi è venuto il boom del made in Italy, ma il ricordo dei piatti dei primi emigranti poveri è rimasto. Al Sistina abbiamo capito che non si può litigare con tutti, quindi rispondiamo diplomaticamente che non abbiamo gli ingredienti in dispensa”.
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Giuseppe infatti è un ristoratore rinascimentale: non si accontenta di stare in cucina, per accontentare la sua clientela esce in sala e bazzica volentieri la cantina. “Da ragazzino mi piacevano i film di Bruce Lee. Dice che per avere la meglio occorre allenare tutte le parti del corpo, dato che nessuno può sapere dove verrà attaccato. Quindi, oltre che cuoco, voglio essere barista, sommelier, esperto di caffè. Non posso assumere gente che ne sa più di me, anche se passo la metà del tempo in ufficio. Il covid ci ha aperto gli occhi su tante cose. Qui a New York nei ristoranti di alta fascia mancava la cultura di mangiare all’aperto, invece noi abbiamo creato un giardino con le posate d’argento sulle tovaglie e lavoriamo alla grande, più di prima. La gente è entusiasta, ‘è bellissimo, sembra di stare in Italia’, dice. Abbiamo proposto anche l’asporto, ma io non sopporto l’idea che il cibo si rovini nel tragitto. Voglio capire come perfezionare la consegna e il packaging, in modo da continuare a rispondere a una domanda elevata. Quando ci hanno chiuso, mi sono detto: ‘non morirò né di virus né di lockdown. Ho tante energie e troppa voglia di fare’. E adesso la gente ha di nuovo voglia di vivere”.
“Tornare in Italia? Con mia sorella a Salerno ho una piccola azienda agricola, con l’uliveto piantato dal nonno e il nostro frantoio, i conigli e le galline. Chi è cresciuto in campagna, può ben amministrare una cucina. Mio zio aveva un albergo a Vietri e sono stato fra i primi, a suo tempo, a introdurre novità come le tartare di pesce. Ma la scena newyorkese è più eccitante. Io agli americani vendo il ghiaccio, perché ci metto molte emozioni: li ho convinti che potevano venire in Italia, restando a casa loro. Adorano la nostra cucina, che è comfort, conviviale e ti fa sentire bene. Sono molto fiero di essere italiano, di essere cresciuto e andato a scuola in Italia; ringrazio di essere curioso, lavoratore, sano e di avere capito chi sono, altrimenti non combinerei nulla”.
Indirizzo
Sistina Restaurant24 East 81st Street - New York, NY 10028
Mail sistina@sistinany.com
Il sito web