Per una sera un’osteria ha ospitato uno dei più grandi ristoranti che la storia della gastronomia degli ultimi 40 anni ricorda: a Castiglione della Pescaia torna in vita il Trigabolo, con un menu irripetibile ricco di colpi di scena.
Il Trigabolo: un menu irripetibile all'osteria Pane e Vino
Il "ritorno" del Trigabolo
Per un appuntamento con la storia bisogna vestirsi bene ma spogliarsi di ogni aspettativa, ché tanto tutto quello che di lei puoi aver letto, ascoltato, vagheggiato, non sarà mai come viverla ed esserne testimoni. Alla fine però è successo veramente: nella serata di giovedì 2 febbraio è andato in scena un evento fortemente voluto dall’osteria di mare Pane e Vino, una giovane realtà di Castiglione della Pescaia, sulla costa maremmana, che si sta imponendo per la sua ricerca sulla materia prima ittica e si interroga sul concetto di osteria unendo gestualità, calore e una selezione di vini e spiriti degna di nota.
Sarà la comunanza di due territori, la Maremma e la laguna di Orbetello con il Delta del Po, una varietà di fauna e flora, mille storie di uomini lontane dall’ufficialità, tramandate oralmente da aedi anche gastronomici, fatto sta che per una sera un’osteria ha ospitato uno dei più grandi ristoranti che la storia della gastronomia degli ultimi 40 anni ricorda. Giacinto Rossetti è arrivato a Castiglione della Pescaia, terra di selvaggina e cacciagione, in una fredda mattina con un carico di selvaggina e cacciagione direttamente dalle vallate del Po, esattamente come era solito fare in quegli splendidi 14 anni in cui ha diretto il Trigabolo, così come lo racconta ancora la cronaca che non dimentica e così come lo raccontano i cuochi che hanno avuto la fortuna di esserne fautori e testimoni. Igles Corelli, Bruno Barbieri, Mauro Gualandi, Italo Bassi, Pierluigi Di Diego, i fratelli Marcello e Gianluca Leoni, Marco Boni, sono tra i ragazzi che hanno lavorato ad Argenta in quell’epopea e che sono ancora in contatto con Giacinto.
Marco Boni in particolare lo ha coadiuvato nella realizzazione di alcuni dei piatti selezionati tra i vecchi menu del Trigabolo per la serata, e c’è da immaginare che la ricerca sia stata piuttosto annosa, visto che il menu era esclusivamente figlio quotidiano di quello che offriva il mercato, ma soprattutto di quello che offrivano pescatori e cacciatori, e che non sempre trattava materie prime autorizzate dalle normative usl, ma l’idea di poter mangiare qualcosa di illegale restituiva ancor più l’idea di autenticità e complicità. E anche per la serata del 2 febbraio 2023, il menu è stato condizionato dalla reperibilità degli ingredienti, per cui non sono mancate sorprese.
Ci sia concessa una piccola digressione. Il Trigabolo ha rappresentato un’epoca, ma forse ancor di più un modo di pensare e concepire la ristorazione unico anche per quell’epoca, per la grande personalità di chi lo creato, assolutamente fuori da ogni schema classico, in cui il perno era quello del territorio, con le sue nebbie invernali e le zanzare estive, i fumi e i profumi, i volatili, i cacciatori, le acque del Po e le sue rive fangose popolate dai capanni in cui si friggevano e arrostivano le anguille, lo spirito di condivisione tutto romagnolo, quella mentalità che ha dato i natali a poeti e romantici in cui si inscrive in tutto e per tutto anche Giacinto Rossetti. Pertanto, l’idea romantica, un po’ folle un po’ onirica di creare un ristorante con un menu che cambia ogni giorno, con preparazioni lunghe anche tre giorni, fondi alla francese e sapori importanti alla stregua di un immaginabile gusto rinascimentale, beh, rende il Trigabolo un unicum non ascrivibile ad alcun genere gastronomico con cui oggi ci sforziamo di classificare la nostra ristorazione.
Un unicum sì, che forse oggi non è sostenibile – in fondo non lo era neanche allora, ma era un credo fortissimo – in termini economici e di risorse umane e ambientali, ma che rappresenta un faro per chi vuole occuparsi di cucina, sia dalla parte del fornello che da chi ne scrive. Mentre Giacinto lavorava in cucina coadiuvato da Marco Boni, sono arrivati due amici produttori di vino, legati da una comunanza di idee e di affetto al Trigabolo: l’uno, Stefano Amerighi, uno degli esponenti di punta del Syrah in Italia, grazie alla sua azienda a Cortona che oltre ai 9 ettari ha iniziato a seguire un vigneto di syrah in montagna, a circa 850 metri. “Mi piace la contaminazione e pensare che questo lavoro non si esaurisce dentro una bottiglia, ma consente di allacciare legami umani che sono il fattore determinante per me. Essendo figlio di contadini che allevavano anche i maiali, per me il rapporto con il cibo è fondamentale, anzi, è dal cibo che è scaturita la passione per il vino, tanto che da adolescente non andavo in discoteca come i miei amici, ma mettevo da parte i soldi per poterli spendere in qualche ristorante importante, come il Gambero Rosso di Pierangelini o l’Ambasciata di Quistello. La syrah che accompagna i piatti di questa serata è del 2016, un’annata in cui mi sono molto divertito, non solo grazie al clima favorevole, ma anche per l’energia che si è creata in vendemmia con i ragazzi che vi hanno partecipato".
"Il mio approccio è molto fisico ed emotivo, il mio desiderio è trasmettere un sapere in cambio di entusiasmo, e durante la vendemmia c’è poco tempo per riposare, si trascorrono le giornate insieme, praticamente si vive insieme e si mangia insieme, in una specie di terzo tempo. E tutte queste energie nel vino si sentono, lo rendono vibrante, con anima. La ricchezza del vino naturale è quella di essere alternativa politica, ma è anche una liberazione dagli schemi, che ci permette di avere vini realmente gastronomici”, racconta Stefano Amerighi, con tono affabulatorio. Gli fa eco l’altro vignaiolo, Filippo Volpi, giunto con il suo Bioselvatico, sangiovese in purezza della Valdichiana, che ha sempre aneddoti importanti da raccontare. “Vengo da una famiglia di ristoratori, sono praticamente nato e cresciuto in un ristorante, poi negli anni 80 frequentavo spesso Paolo Teverini che aveva una passione per il vino che esprimeva nella sua cantina molto ben fornita, per cui gli chiesi di poter fare uno stage da lui. Fu in quel periodo che mi portò a Milano per un evento, e lì conobbi Igles Corelli che mi parlò del Trigabolo e mi invitò ad andare a trovarlo. Restai folgorato da quel pranzo, non ho mangiato dei piatti, ho mangiato dei sogni. Dopo pochi mesi, passai a lavorare al Trigabolo e conobbi Giacinto Rossetti, che non stava in cucina, ma ne era l’anima e ogni giorno arrivava al ristorante con il camioncino pieno di materia prima di ogni genere, straordinaria. Ogni giorno Giacinto mi faceva assaggiare qualche vino, e dopo un periodo in cucina, mi ha spostato in sala con sé a fare anche il servizio del vino. È stato un periodo straordinario” commenta emozionato Filippo.
Avrebbe dovuto presenziare anche Federico Staderini, ma purtroppo per motivi personali non è potuto intervenire di persona. Ha in compenso mandato in sua vece il bellissimo Cuna, il pinot nero fiore all’occhiello di questo enologo che ha contribuito a fare la storia del vino in Italia, essendo stato allievo di Giulio Gambelli nonché il primo enologo di Ornellaia, e persona di grande spessore non solo professionale, ma anche umano, di cui il suo pinot aretino ne è espressione elegante ed esemplare. “Se è vero che il vino non è chimico ma alchemico, ovvero è determinato anche da chi lo fa, oltre al frutto e al territorio, beh, questo vino è l’esatta espressione della personalità di Staderini, colui che ha cercato strenuamente di portare il pinot nero nel Casentino, dove notoriamente si producono più castagne che uva. Ma la sua sfida è vinta, è un pinot nero che non è solo un pinot nero, ma l’espressione di Federico, che interpreta un vitigno con la sua visione originale e secondo il proprio temperamento, da persona erudita e umanista a tutti gli effetti”.
Per il fine pasto è intervenuto anche il produttore di cioccolato Rukèt, Marco Gruppioni, dalla provincia ferrarese dove ha sede anche la gelateria Teatro del Gelato e dove da 10 anni conduce una ricerca in solitaria sul cioccolato artigianale. La qualità è eccelsa, e Marco si occupa nel suo laboratorio di ogni fase di lavorazione e produzione di cioccolato, selezionando le fave di cacao, acquistandole direttamente dai paesi di origine, Tanzania, Repubblica Domenicana, Nicaragua, Haiti, Honduras e Vietnam. Umiltà, passione, fasi di lavorazione curate in prima persona con lunghi tempi di esecuzione, dalla macinatura al temperaggio alla barretta, a restituire intensità di gusto polisensoriale (dal rumore, al tatto, all’aroma e il profumo).
I piatti
L’inception nel mondo onirico del Trigabolo si è dipanata in una sfilata di piatti memorabili, dall’esordio della tartina di anguilla con un intingolo dominato dall’aroma della cipolla, la rotondità molto accentuata e la carne dell’anguilla fondente. Il piatto ha il potere immaginifico di traslarci nelle vallate del Po, e a quel piatto del Trigabolo a base di Folaga ripiena di anguilla, “perché la folaga è un uccello che si nutre di pesci e le sue fibre si intridono di quella salinità al punto da essere venduta al mercato del pesce.” Ah, gli aneddoti di Giacinto!
Si prosegue quindi con il Petto di germano all’arancia con scalogno al Madera, abbinato a un calice di Cuna di Staderini. L’amore per le salse si realizza qui in una splendida peverada, a base di fegatini e pepe, perfetta nell’incontro con la selvaggina, completata da un tocco di agrume a dare freschezza. Un’opulenza oggi dimenticata dalla contemporaneità, ma che si mostra con assoluta eleganza, con l’intingolo finale a richiamare la scarpetta e che costituisce un piatto a sé, come un secondo servizio, a riunire gli umori del germano e dello scalogno con la salsa.
Insieme al calice di Bioselvatico arrivano i Ravioli di fagiano allo zabaione di parmigiano a ricondurci negli anni 80 dell’Italia più bella, ancora con una salsa ricca la cui eredità è stata raccolta qualche lustro dopo da Massimo Bottura, che ha riportato il parmigiano in salsa, alleggerito come epoca comandava, ma facendone vessillo di un gusto emiliano e anche romagnolo che Rossetti ha lottato per tenere vivo e di cui oggi si può riconoscere tutto il valore, non senza una certa nostalgia.
È un crescendo incredibile di amarcord felliniano con l’onirico Risotto all’alzavola, per cui “per fare un grande risotto di selvaggina serve un’alzavola per ogni chicco di riso”, chiosa Giacinto. Un piatto corsaro, simbolo di quella cucina che sfidava le leggi e che non poteva esistere senza quella materia prima nobile, unica, incredibile, scovata a ogni costo fuori e dentro i mercati, a ogni ora del giorno e della notte, e che si otteneva anche grazie a una sottile trama di scambi e diplomazia che Giacinto ha saputo intessere con audacia e maestria.
La cena culmina con il Capriolo, il suo fondo, indivia brasata. Morsi fondenti, un fondo davvero degno della migliore classicità, dritto, verticale, reso ancor più memorabile dalla presenza dei cedri canditi congeniali ad arrotondare il tono ematico della carne al sangue – e ricordiamo che il Trigabolo è stato il primo ristorante in assoluto a portare in tavola selvaggina al sangue, 40 anni fa, molto prima che diventasse una moda serpeggiante tra le nuove generazioni di chef.
“Il Trigabolo non era un ristorante, era un modo di vivere, e continua anche senza i cuochi vi hanno lavorato, pur avendo con alcuni di loro un rapporto di amicizia e stima. I piatti non c’entrano nulla, cambiavano dal pranzo alla cena, non si contano più ormai. Sono perdutamente innamorato del mio lavoro, e il mio lavoro è la mia vita, per questo il ristorante ha chiuso i battenti ma io ho continuato a vivere nello stesso modo” commenta a fine cena Giacinto, sguardo sornione, aria stanca ma serena di chi sa attraversare le epoche planando con eleganza, fedele alla propria personalità, unica e impareggiabile.
Fotografie di Lido Vannucchi