Lo chef di Zia Restaurant è riuscito a gettare i semi del fine dining su un terreno storicamente vocato alla ristorazione tradizionale. Il suo menu è un sentiero panoramico che guarda al mondo, ma resta in Italia, inquadrando i sapori da una nuova angolazione.
Zia Restaurant
Il contrasto è netto e a suo modo intrigante: dalle trattorie en plen air e le botteghe impregnate di folklore a una dark room dove la luce s'insinua discreta, rischiarando i tavoli quanto basta per donare al cibo il giusto grado di protagonismo. Basta imboccare via Goffredo Mameli e, a pochi passi dal rione Trastevere, l'ingresso di Zia Restaurant appare come una sorta di varco gastro-temporale per forchette in vena di degustazione.Non ci si arriva per caso, ma spinti da un interesse del tutto simile a quello che Antonio Ziantoni prova davanti a una sfilza di animelle di vitello o una parure di ostriche bretoni, pensando già a come usarle nella prossima amuse bouche. Nasce così il suo menu, uno zoom sul prodotto che abbraccia l'essenziale e affila il dettaglio, inquadrando i sapori da una nuova prospettiva.
<br />Il ristorante
"Le mie creazioni sono esplicite e leggibili: il cibo deve coinvolgere, non confondere", spiega lo chef, entrando nel vivo del discorso. "Spesso è proprio la riconoscibilità dei singoli elementi, che consente agli ospiti di apprezzarli in pairing".
Da ex discepolo di Anthony Genovese con un corredo di esperienze negli hotspot della gastronomia europea (due nomi su tutti: George Blanc e Gordon Ramsay) e diverse puntate oltreoceano (dalla Cina all'Australia), Antonio tornisce l'ingrediente fino a rimuovere il superfluo, sviluppando le idee in forma pura. E l'insegna stessa sembra riflettere questa tendenza, grazie al tratto leggero di un design simil-nordico che esalta i piatti senza giochi di prestigio.
La sua avventura da solista è iniziata quattro anni fa, gettando i semi del fine dining su un terreno storicamente vocato alla ristorazione tradizionale, e ha preso la rincorsa con l'assegnazione della stella nella Guida Michelin 2021. Merito non solo dell'estro ai fornelli, ma anche di un'armonica simbiosi fra sala e cucina cementata dalla presenza di Ida Proietti, compagna dello chef e affabile padrona di casa. È lei a guidare il servizio insieme al maître Marco Pagliaroli, dando voce a ogni portata con pari attenzione.
Antonio Ziantoni e Ida Proietti
Marco Pagliaroli
Il menu è un sentiero panoramico "che guarda al mondo, ma resta in Italia", sottolinea Antonio, "incorporando tanto le mie esperienze all'estero, quanto lo studio della materia prima locale". A unire i puntini, l'affinità elettiva fra estetica e gusto, un tacito accordo che inizia dalle geometrie del benvenuto, indugia sui cromatismi dei piatti principali ed evolve nelle linee pulite di una pasticceria squisitamente minimal, a cura del pastry chef Christian Marasca (passato anche lui per Il Pagliaccio). Chi sceglie i vini è Valentina Bivoni, molto coinvolta nello scouting di piccole perle autoctone.
Christian Marasca, executive pastry chef
<br />I piatti
Il benvenuto dello chef è un vernissage di contrasti dalle acidità espressive. Lo dimostra l'Idea di mozzarella, che nel primo round si candida spontaneamente al ruolo di protagonista; sul piatto una mini-sfera perlacea, in bocca un crash giocoso ad alto tasso di sapidità.
Benvenuto dello chef
"Abbiamo creato una mozzarella di capra, che di fatto non esiste", spiega Antonio. "Per realizzarla, scaldiamo il latte ovino a 85 gradi e lo congeliamo. Una volta raggiunto lo stato solido, le palline vengono immerse nello stesso ingrediente arricchito con una soluzione di potassio". È qui che si forma il sottile rivestimento esterno, mentre il cuore rimane liquido, pronto a esplodere al primo scatto di mandibola.
Idea di mozzarella
Pasta filata? Non pervenuta. "Ma il finger è immerso nel siero, a richiamare l'acqua di conservazione del latticino". Un'icona decostruita che spiana la strada agli assaggi successivi quali il Kiwi marinato nel bergamotto e la Tartina con crema di cavolo rosso e senape, fino all'Aspic di peperone e dragoncello, breve assolo di dolcezza vegetale. Più strong la Pancia di maiale cotta per 8 ore dopo 15 giorni di salamoia: fine e fondente, si lascia dietro una lunga scia fumé.
Idea di mozzarella
Con gli antipasti il ritmo aumenta in un dividendo di sapori netti e via via più incisivi. Ricorda un'omelette, la Tartare di pecora in insalata, ma l'involucro è 100% vegetale. Il palato la scopre fragrante complice l'uso del latte di soia. "Lo scaldiamo più del necessario - un po' come è accade quando ci si dimentica il pentolino sul fornello acceso- ma con un obiettivo ben preciso. Sopra, infatti, affiora una patina simile al caglio, che viene poi essiccata, reidratata per favorire la lavorazione e quindi fiammeggiata fino a ottenere la croccantezza ideale". Nel mezzo, una cornucopia di cipolline alla brace, pimpinella, fragoline di bosco sotto spirito e mandorle salate in conserva, più salsa bernese e un fondo di ossa di pecora che strizza l'occhio al crudo valorizzando le eccedenze.
Tartare di pecora in insalata
È emblema del riutilizzo anche il Capitone in gratella, cipolla e dragoncello, dove gli scarti mutano in salsa per guarnire il filetto. "Partiamo dalla lavorazione dell'animale intero, affumicandolo a caldo e lasciandolo appeso finché le fibre non si sono rassodate. Il processo completo dura 4, talvolta anche 5 giorni", racconta Antonio. "Le parti residue, inclusa la testa, vengono poi impiegate in un fondo che gelifica bene grazie al collagene della pelle". Come in fonetica, qui è l’accento finale a ribaltare il concetto. La laccatura del pesce, infatti, ricorda l’abbinamento fra salsa bbq e costarelle di maiale, potenziato dalla spinta dolciastra della cipolla.
Capitone in gratella, cipolla e dragoncello
Con l'ingresso dei primi amplia il campo visivo e gustativo il Risotto bufala, limone e genziana, in cui il chicco, cotto nell'acqua di governo della mozzarella, guadagna punti con i sentori decisi della polvere di agrumi al sale e il timbro amarognolo del liquore, aggiunti entrambi in uscita. Un ton sur ton delicato, ma cangiante, che gioca la carta delle sfumature per restituire una nuova sensazione di avvolgenza.
Risotto bufala, limone e genziana- foto dell'autrice
All'estremo opposto della scala sensoriale, nei Cappellacci con prugne secche, parmigiano e bitter risalta subito la tempra della sfoglia che, tesa e callosa, prolunga piacevolmente il boccone abbracciando la farcìa. Il leitmotiv è un'intrepida rincorsa di equilibri, dall'impennata umami della crema di formaggio al flavour affumicato del ripieno di maiale cotto a bassa temperatura nel carbone, fino alla polpa mielosa del frutto, che stempera il picco di glutammato in una fusione compiuta di sapori.
Cappellacci con prugne secche, parmigiano e bitter- foto dell'autrice
Ma la svolta arriva in chiusura con l'opulento Germano, lardo e cacao. Qui il velo di grasso, lucido e setoso, aderisce alla carne come una seconda pelle. "L'ho scelto con sfumature intense di nocciola, esaltate da un mix di finocchietto e ginepro", spiega lo chef, “mentre il volatile lo sbollentiamo intero, facendolo frollare almeno 15 giorni prima della cottura definitiva". A lato una salsa di cacao "ottenuta dalla mucillagine della fava fresca, che rimane a fermentare in cucina per un mese". L'effetto è duplice: ingresso rotondo e finale acidulo, ad arricchire di contrasti la succulenza della carne.
Germano, lardo, cacao- preparazione
La stessa golosità fulminea torna nel Risolatte, caffè e cardamomo, un crescendo di alchimie spumose che veste i panni del cappuccino colato nella tipica tazza da prima colazione. Ce lo racconta Christian Marasca: "Si parte proprio dalla cottura del riso nel latte aromatizzato alla vaniglia. Una volta freddo, lo maneggio per renderlo cremoso e lo copro con altri due strati: una mousse al caffè con mascarpone e una granita -sempre di caffè- molto compressa, così da risultare volatile, ma non troppo ghiacciata". Ultimo step, la spuma di cardamomo nero, su cui viene spolverizzato uno specialty coffee Etiopia "che tende all'aspro, ma ha già di suo dei sentori affini a quelli della spezia". La trama è soffice, quasi eterea; il gusto, di una profondità essenziale, dimostra come anche un fine pasto apparentemente basic possa lasciare il segno.
Risolatte, cardamomo nero e caffè- dessert firmato dal pastry chef Christian Marasca
Indirizzo
Zia Restaurant
Via Goffredo Mameli n 45 – 00153 Roma
Tel. +39 06 23488093
Sito web
I piatti
Il benvenuto dello chef è un vernissage di contrasti dalle acidità espressive. Lo dimostra l'Idea di mozzarella, che nel primo round si candida spontaneamente al ruolo di protagonista; sul piatto una mini-sfera perlacea, in bocca un crash giocoso ad alto tasso di sapidità.
"Abbiamo creato una mozzarella di capra, che di fatto non esiste", spiega Antonio. "Per realizzarla, scaldiamo il latte ovino a 85 gradi e lo congeliamo. Una volta raggiunto lo stato solido, le palline vengono immerse nello stesso ingrediente arricchito con una soluzione di potassio". È qui che si forma il sottile rivestimento esterno, mentre il cuore rimane liquido, pronto a esplodere al primo scatto di mandibola.
Pasta filata? Non pervenuta. "Ma il finger è immerso nel siero, a richiamare l'acqua di conservazione del latticino". Un'icona decostruita che spiana la strada agli assaggi successivi quali il Kiwi marinato nel bergamotto e la Tartina con crema di cavolo rosso e senape, fino all'Aspic di peperone e dragoncello, breve assolo di dolcezza vegetale. Più strong la Pancia di maiale cotta per 8 ore dopo 15 giorni di salamoia: fine e fondente, si lascia dietro una lunga scia fumé.
Con gli antipasti il ritmo aumenta in un dividendo di sapori netti e via via più incisivi. Ricorda un'omelette, la Tartare di pecora in insalata, ma l'involucro è 100% vegetale. Il palato la scopre fragrante complice l'uso del latte di soia. "Lo scaldiamo più del necessario - un po' come è accade quando ci si dimentica il pentolino sul fornello acceso- ma con un obiettivo ben preciso. Sopra, infatti, affiora una patina simile al caglio, che viene poi essiccata, reidratata per favorire la lavorazione e quindi fiammeggiata fino a ottenere la croccantezza ideale". Nel mezzo, una cornucopia di cipolline alla brace, pimpinella, fragoline di bosco sotto spirito e mandorle salate in conserva, più salsa bernese e un fondo di ossa di pecora che strizza l'occhio al crudo valorizzando le eccedenze.
È emblema del riutilizzo anche il Capitone in gratella, cipolla e dragoncello, dove gli scarti mutano in salsa per guarnire il filetto. "Partiamo dalla lavorazione dell'animale intero, affumicandolo a caldo e lasciandolo appeso finché le fibre non si sono rassodate. Il processo completo dura 4, talvolta anche 5 giorni", racconta Antonio. "Le parti residue, inclusa la testa, vengono poi impiegate in un fondo che gelifica bene grazie al collagene della pelle". Come in fonetica, qui è l’accento finale a ribaltare il concetto. La laccatura del pesce, infatti, ricorda l’abbinamento fra salsa bbq e costarelle di maiale, potenziato dalla spinta dolciastra della cipolla.
Con l'ingresso dei primi amplia il campo visivo e gustativo il Risotto bufala, limone e genziana, in cui il chicco, cotto nell'acqua di governo della mozzarella, guadagna punti con i sentori decisi della polvere di agrumi al sale e il timbro amarognolo del liquore, aggiunti entrambi in uscita. Un ton sur ton delicato, ma cangiante, che gioca la carta delle sfumature per restituire una nuova sensazione di avvolgenza.
All'estremo opposto della scala sensoriale, nei Cappellacci con prugne secche, parmigiano e bitter risalta subito la tempra della sfoglia che, tesa e callosa, prolunga piacevolmente il boccone abbracciando la farcìa. Il leitmotiv è un'intrepida rincorsa di equilibri, dall'impennata umami della crema di formaggio al flavour affumicato del ripieno di maiale cotto a bassa temperatura nel carbone, fino alla polpa mielosa del frutto, che stempera il picco di glutammato in una fusione compiuta di sapori.
Ma la svolta arriva in chiusura con l'opulento Germano, lardo e cacao. Qui il velo di grasso, lucido e setoso, aderisce alla carne come una seconda pelle. "L'ho scelto con sfumature intense di nocciola, esaltate da un mix di finocchietto e ginepro", spiega lo chef, “mentre il volatile lo sbollentiamo intero, facendolo frollare almeno 15 giorni prima della cottura definitiva". A lato una salsa di cacao "ottenuta dalla mucillagine della fava fresca, che rimane a fermentare in cucina per un mese". L'effetto è duplice: ingresso rotondo e finale acidulo, ad arricchire di contrasti la succulenza della carne.
La stessa golosità fulminea torna nel Risolatte, caffè e cardamomo, un crescendo di alchimie spumose che veste i panni del cappuccino colato nella tipica tazza da prima colazione. Ce lo racconta Christian Marasca: "Si parte proprio dalla cottura del riso nel latte aromatizzato alla vaniglia. Una volta freddo, lo maneggio per renderlo cremoso e lo copro con altri due strati: una mousse al caffè con mascarpone e una granita -sempre di caffè- molto compressa, così da risultare volatile, ma non troppo ghiacciata". Ultimo step, la spuma di cardamomo nero, su cui viene spolverizzato uno specialty coffee Etiopia "che tende all'aspro, ma ha già di suo dei sentori affini a quelli della spezia". La trama è soffice, quasi eterea; il gusto, di una profondità essenziale, dimostra come anche un fine pasto apparentemente basic possa lasciare il segno.
Indirizzo
Zia Restaurant
Via Goffredo Mameli n 45 – 00153 Roma
Tel. +39 06 23488093
Sito web