Sui fuochi di Ciccio Sultano l’”isola delle differenze” diventa un formidabile laboratorio di identità e contraddizioni. Perché il sud non è solo prodotto, ma futuro, stili, culture.
La Storia
Cos’è un’isola? La figura dell’estetica, staccata com’è da tutto ciò che è ordinario e quotidiano, il noioso continente della ferialità che può al massimo protendere qualche penisola di temeraria avventura. Così scriveva il filosofo Vladimir Jankélévitch. E vale più che mai per la Sicilia, “isola delle differenze” dove tutto è bellezza, anche in cucina.Capita tuttavia, sedendo a tavola, di incappare in un equivoco. Che la cucina del territorio sia una questione di prodotti, certo eccellenti, spesso insuperabili, e non di stilistica e di concetto. Sono piatti dalla genetica apparentemente pura, pasti perfetti e quanto mai congeniali al palato del cliente straniero. Che però tradiscono un’imbastitura marchesiana o redzepiana, bulliana o nipponica, comunque estrinseca rispetto a luoghi che sono invece terroir in senso lato, culturale non meno che materico e di repertorio. Qui più che altrove.
È forse questo che stordisce prima di tutto al Duomo di Ragusa: l’aderenza a luoghi che sono il corpo e l’anima della cucina. Tutte cose, per dirla in siciliano, a cominciare dagli spazi: quell’infilata di stanzette dalle cromie sature come i sapori dei piatti, rosso, oro, blu, verde, ricavate in una dimora d’antan dai pavimenti in pietra pece. Un interno borghese ritagliato in quel palazzo La Rocca che fu set di Divorzio all’italiana, ancor più bello dopo la ristrutturazione del 2018 e l’inaugurazione degli adiacenti Cantieri Sultano, spazi polifunzionali che fungono da laboratorio, ufficio e anche salottino con tavolo privé.
Il segreto, probabilmente, sta in un motto dello chef: “autodidatti si diventa”. Ovvero “colti si nasce”, verrebbe da chiosare in questo crogiolo di civiltà, dove un tempo i contadini parlavano greco antico. La biografia di Sultano, irriducibile come la sua Sicilia, è avvincente al limite del picaresco: nato a Torino, dopo un triennio di lavori in campagna e nei cantieri, a soli 13 anni entrava nel bar pasticceria Sweet di Vittoria, mentre prendeva la licenza media grazie alla frequentazione di corsi serali. Poi la spaghetteria di Baia del Sole a Marina di Ragusa, di cui ricorda: “Faticavo e annaspavo da solo con Zed, un lavapiatti tunisino. Preparavo non più di cinque tipi di paste, ma fatte bene. Quella stagione il locale incassò molto più del ristorante di fronte, che poteva contare su otto persone. Capii allora che avrei potuto e voluto diventare cuoco”. Da lì le letture e lo studio, cominciando dal Pellaprat. Nella consapevolezza che “essere un autodidatta offre la possibilità di conciliare due aspetti spesso in conflitto: la libertà e la coerenza”. Autodidatta di cucina, ma anche di storia culinaria e non, dati i volumi che si affastellano nella sua memoria.
Fino alla fondazione del Duomo una ventina di anni orsono, con la conquista della prima stella nel 2004 e della seconda a stretto giro, nel 2006. Ma negli ultimi anni sono sopraggiunte altre realtà: la vicina Casa Sultano, per accogliere gli ospiti del ristorante; i Banchi, locale polifunzionale non-stop datato 2015, che funge da bottega e pasticceria, pizzeria e ristorante, con il pane al centro e una proposta di cucina se non colta, “educata” in un ambiente conviviale; Pastamara (cioè cioccolato) presso il Ritz-Carlton di Vienna, ambasciata siciliana nella Mitteleuropa. Solo a Ragusa sono in tutto 610 metri quadrati di superficie operativa, contando cantina e wine nursery. Poi ci sono le produzioni proprie: bottarga, capperi, conserve varie, caponata e specialità dolciarie. Progetti quali l’Aia Gaia, per la produzione di uova e galline in spazi aperti, e la collaborazione con Testa conserve, che trasforma il pesce azzurro in sughi e sottoli. Nel giro di qualche mese aprirà infine le porte de il San Corrado Hotel a Noto, con la ristorazione della casa. C’è posto anche per i Quaderni, pubblicazioni di cultura culinaria, il cui primo numero è stato dedicato al tema delle Dominazioni, snocciolato attraverso dodici ricette. Seguirà Vademecum, contenente strategie e regole dello stile Sultano.
La carta dei vini del sommelier Antonio Currò, pluripremiata a livello internazionale, non sfigura con le sue 1200 referenze, che giustappongono vecchie e nuove eccellenze siciliane ai blasoni internazionali. Vi risaltano etichette da collezione, le Riserve del Sultano, provenienti dalla cantina personale dello chef. L’esordio tuttavia è per la “cucina alcolica”, una serie di cocktail serviti con gli appetizer. Mentre sultana della sala è la bella Gabriella Cicero, in arrivo dal Consiglio di Sicilia; sous-chef il fedelissimo Marco Corallo.
I Piatti
I menu degustazione sono 2: Basileus Hyblon a 160 euro e Vento e passione a 135, con diverse formule di abbinamento, dai 50 euro di Movimento ai 120 di Sicilia-Borgogna A/R. A colpire è già la loro articolazione, con il servizio contemporaneo di diverse portate, volto a imbandire decorativamente la tavola, ma anche a movimentare il flusso dei piatti, per così dire aperti su spezzoni che li fanno degustare con spirito e aspettative differenti. Un servizio non alla francese o alla russa, ma alla “araba” o meglio alla Sultano, nato in casa e nei banchetti per facoltosi stranieri, grazie al quale il pasto è narrazione. Vedi il menu delle Dominazioni siciliane, che scandisce la storia dell’isola nell’avvicendarsi di presenze e culture: cartaginesi, greci, romani, bizantini, arabi, normanni, ebrei, Aragonesi, Borboni, Asburgo, piemontesi… “Serviamo contemporaneamente fino a tre piatti, che non si conoscono, ma possono stare insieme, per dovere di ospitalità, per un’abitudine siciliana immemorabile, greco-araba-borbonica. La tavola in Sicilia è un abbraccio, un gesto di pace, di generosità, di seduzione intelligente”.Il risultato è un concentrato di ethnos senza folklore, eros, matericità e pensiero. C’è chi dice “barocco”, ma è solo uno degli strati al carotaggio. E dato il numero ridotto degli ingredienti, lo si direbbe piuttosto un “barocco minimalista” alla Damien Hirst, generoso ma riflessivo e centrato. “Non sono barocco, ma vivo nel barocco”, puntualizza Sultano. “Potrei definirmi, semmai, un barocco d’avanguardia. Aggiungere non mi spaventa, perché la differenza sta nell’armonizzazione dei dettagli, nella precisione delle cotture, nel matrimonio di profumi, colori e consistenze. E poi smettiamola di usare barocco come un termine spregiativo, perché tifiamo per i ‘primitivi’ o i ‘neoclassici’. Il barocco appartiene al Seicento, secolo della scienza, di Galileo, Newton e Giordano Bruno, che per aver affermato che esistono ‘infiniti mondi’ fu bruciato. In Sicilia il barocco è quello stile architettonico che ci ha regalato mirabili piani urbanistici e scenografie urbane, cioè luoghi per vivere”.
Gli appetizer sono entusiasmanti, quanto mai netti nel loro crash calcolato di gusti e culture: l’ormai classico Volevo essere fritto, epitome della Sicilia che chiude in valigia gambero e cannolo; la pralina di caprese; l‘auto trompe-l’oeil del pomodorino di concentrato e dell’oliva di marzapane ai pistacchi; la tartelletta di gamberi gobbetti; la pralina di foie gras con sgombro e peperone; il millefoglie di pelle di pollo croccante e bottarga di tonno sul limone.
Per benvenuto un altro trompe-l’oeil: il mallo di mandorla ricostruito con la tartare di scampi, una mandorla fresca, gelatina di uva in un mantello di mandorla pizzuta. Nelle parole di Sultano “una primavera impazzita”. Ed è un incipit soave e quasi femminile, confermato dall’ostrica a beccafico, o sarda 55 come i suoi gradi di cottura. Quindi l’ostrica con il condimento a beccafico all’interno e fuori la sarda con funzione di sostegno, “architettonica” per così dire. “Dove l’elemento catalizzatore della ricetta è la zuppa di acqua di limone con cui, in campagna, si condiscono le insalate rinforzate”.
Lo schema del “servizio alla Sultano” inizia con la giustapposizione di due piatti disomogenei, blandamente legati dalla simpatia fra ricci e caviale. Dapprima la pasta mista con ricci, limone e anguria, di cui Sultano racconta la gestazione ispirata alle derive aromatiche. “Mi fa piacere ricordare come è nato questo piatto, come le ricette viaggino nell’aria. Due ragazzi in cucina: uno a pulire triglie e l’altro a passare l’anguria per preparare il gelo. L’incontro dei due profumi, il pesce crudo e il frutto, ha sollevato una brezza che sapeva di riccio". Poi il doppio caviale con tartare di pesce bianco e gelatina di vodka da intervallare alla rustica giardiniera di cavolfiore, con qualche reminiscenza di Joël Robuchon. “Laman ma’a khiar”, commenta Sultano. “In tutta la mezzaluna fertile, tra Medio Oriente e Mesopotamia, si gusta lo yogurt con il cetriolo. Ecco, nella Sicilia che fu araba, l’interpretazione a strati di quel piatto rinfrescante”. Dal basso verso l’alto si sovrappongono tartare di gambero rosso e cernia in gelatina di vodka tonic; salsa di yogurt e cetriolo; doppio caviale, Baikal e Kaluga Amur, più il cavolfiore in agrodolce.
La triglia a pesce d’uovo è composta di una mattonella fritta, atavico succedaneo di proteine nobili, insalatina di pomodoro e pangrattato, lisca croccante, infornata con la coda legata, filetto inciso e imbottito di olive nere, più una gelatina di agrumi a base di limone verde, lime, arance rosse. Il piatto è completato dal profilo del pesce, disegnato con il nero di seppia, un bricco di sugo di triglia e un’arancia essiccata in forno da grattugiare sopra, nera come il limone iraniano.
Il gelato al tartufo siciliano funge da intermezzo, in liaison con il formaggio che segue: Currò lo abbina a un Marsala Florio, che rispolvera le imperfettibili associazioni della cucina classica (basta pensare alle salse), lavorando su ossidazioni e sottobosco, mentre l’alcolicità doma la temperatura.
Lo gnocco ripieno di Ragusano dop è servito con salsa di grano, carbonara di seppia, lampuga, pesce pettine e scorfano appena scottati. “La tecnica viene usata come un mezzo per dar forma e gusto alle idee; qualcosa che distingue, ma non sostituisce l’immaginazione, che non è fantasia, ma visione. È la questione su cui dibattono critica e cucina, da Ferran Adrià al 2019”.
Poi la ventresca di tonno al sugo di vitello. “Perché una carne di pesce a sangue caldo come la ventresca si sposa con il suo corrispettivo di terra. Il quid della ricetta è la salsa di tre cotture: l’arrosto, le ossa, il petto di pollo con carne di vitello magro. La ventresca di tonno rosso è quella selezionata per conto di Testa Conserve, pescatori siciliani dal 1800”.
Né può mancare il maialino nero dei Nebrodi. “Questa è la versione estiva, a maniche corte, con scaglie di tartufo, una salsa di senape, melone Cantalupo, liquore Amara e un cestino di patate con il sugo del maiale. L’effetto affumicato è ottenuto con una spolverata di bucce di patate al forno”. Dove il frutto ha quasi un vellutato effetto foie gras.
Chiude la torta di fichi. “Il mio omaggio sentimentale alla fugace apparizione settembrina di questo frutto in Sicilia. Dura poco ed è un’eco dell’estate. Su un tortino di pasta choux aggiungiamo fichi bianchi e neri, le meravigliose mele azzeruole, poco più grandi di un pollice, chiamate per il loro colore anche mele granchio, crema Chantilly e panna non zuccherata”.
Le fotografie sono di Benedetto Tarantino
Indirizzo
Ristorante DuomoVia Capitano Bocchieri, 31, 97100 Ragusa – Località Ragusa Ibla
Tel.+39 0932 651265
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