Carmine Memoli e Francesco Sansalone, rispettivamente chef e sous-chef di 29 e 28 anni, sono stati scelti per guidare la brigata di Cocina Hermanos Torres. La nostra intervista.
L'intervista
Fra i tre stelle spagnoli, Cocina Hermanos Torres è un capolavoro di anticonformismo. Non resterà deluso chi si aspetta una cucina materica e artigianale, nel filone di Santi Santamaria, di cui uno dei gemelli, Javier, è stato lungamente chef.
Ma nel piatto troverà molto di più: tecniche avanzate, per quanto sottaciute, giapponismi e reminiscenze del Brasile, dove i due hanno mandato avanti un ristorante, approcci freschissimi al servizio in un assetto rivoluzionario, che mette la cucina al centro, in tutti i sensi. Il repertorio catalano è ben presente, ma c’è anche tanta Italia. A guidare la brigata di oltre venti elementi sono infatti due ragazzi nostrani: Carmine Memoli e Francesco Sansalone, rispettivamente chef e sous-chef di 29 e 28 anni.
Carmine Memoli
Carmine, come sei arrivato a Barcellona?
Sono originario del Cilento, quindi la mia carriera è iniziata nei ristoranti della zona. Ho compiuto la mia prima esperienza stellata al Faro di Capo d’Orso, poi ci sono state Le Trabe di Capaccio e il Glicine di Amalfi. Nel 2019 ho seguito la mia ragazza a Barcellona, ho visto questo ristorante e ho inviato il curriculum. Ho iniziato a febbraio 2020 come capopartita, ma ci hanno subito chiuso e siamo andati avanti a singhiozzo per un po’. Sono diventato junior sous-chef, poi nel 2021 il desiderio di un’esperienza in Francia mi ha portato al Mirazur. I fratelli Torres tuttavia mi hanno richiamato, stavano cercando qualcuno che guidasse la cucina e siccome mi ero trovato molto bene, sono rientrato come chef nel novembre 2021. Da allora abbiamo avuto tante soddisfazioni, siamo cresciuti molto e cresceremo ancora.
Cosa ti è piaciuto?
Dall’esterno sembra un ristorante normale, ma la cucina al centro cambia tutto, magari il cliente arriva, ti chiede cosa stai facendo e lo fai partecipare. È un tre stelle, ma si respira un’informalità che ti fa sentire a casa.
Il fatto di essere italiano ha contato?
Secondo me la cucina catalana e quella italiana sono al tempo stesso molto simili e molto diverse grazie all’influenza mediterranea, ma si deve essere bravi a mischiare le due cose. Forse nei piatti non si vede, tuttavia spesso nel pensiero c’è tanta italianità, perché io e Francesco siamo entrambi coinvolti nel processo creativo.
All’estero si sta meglio?
In generale mi sono trovato molto meglio in Spagna, per la mentalità e per come si lavora. Gli spagnoli hanno una marcia in più perché sono uniti, qui la concorrenza è leale ed è ciò che rende forte il gruppo. Poi l’ambiente è rilassato, con tanti chef che passano a visitarci.
Pensi di rientrare in Italia in futuro?
L’Italia è sempre nei miei pensieri, tutto dipenderà da come si evolverà la situazione. Penso che la cucina italiana sia una delle migliori al mondo, ma siamo stati capaci di svenderla. All’estero siamo conosciuti per la pasta e la pizza, pure fatte male, non per l’essenza e l’idea, per esempio il fatto che soprattutto al sud praticamente ogni piatto è di recupero. Ci siamo fatti copiare troppo, senza tutelare il nostro patrimonio.
Francesco Sansalone
Francesco, raccontaci la tua storia.
Sono nato in Sicilia da genitori calabresi, poi ci siamo trasferiti a Genova, dove ho frequentato l’alberghiero Marco Polo. Nel frattempo davo una mano nella trattoria di Daniele Sperindio a Chiavari, oggi stellato a Singapore. Dopo il diploma sono partito per lavorare al Park Hyatt di Abu Dhabi e all’Hedone di Londra, dove sono stato capopartita in tutte le partite. Sono rientrato in Italia per motivi personali e mi sono fermato al Marin di Marco Visciola per 8 mesi. Poi subito Barcellona, con l’idea di lavorare da Albert Adrià, presso Hoja Santa, e la prima esperienza dai Torres quale capopartita alle carni. Ma io volevo ancora viaggiare e sono partito alla volta dell’Australia, perché mi è sempre piaciuto conoscere nuovi prodotti e aprire la mente. Col Covid sono rientrato al Marin, sono passato da Berton al Lago e mentre cercavo di capire che fare, mi è arrivata la chiamata dei Torres che cercavano un secondo.
L’italianità conta?
Gli Hermanos hanno girato anche loro e mi ritrovo in questo loro approccio. Si ispirano al Brasile e all’Asia. L’Italia e la Spagna poi sono simili e vicine, i prodotti sono reperibili e possiamo permetterci qualche tocco italiano. In passato persino un tagliolino ai ricci di mare. Quello che facciamo è prendere il meglio di ciò che conosciamo e unirlo. Loro sono stati molto contenti che noi proponessimo una pasta, cosa rara nel fine dining della città. I punti di contatto sono tanti ed è facile nel piatto toccare entrambe le nazioni.
Perché i Torres hanno puntato su di voi?
I fratelli hanno subito apprezzato la nostra disponibilità, il senso del gusto poi lo abbiamo sintonizzato in loco. Ci siamo adattati al loro palato e alla gestione di quello che è un grandissimo orologio, con 25 cuochi e oltre 20 camerieri.
All’estero si sta meglio?
In generale no, dipende dai luoghi. Londra è molto complicata, anche se meno di un tempo. Ringrazio di essere arrivato quando la vecchia scuola stava declinando, e in questo i Torres ci approvano. Sono comunque esperienze che mi hanno reso più forte e insegnato cosa non dovevo essere. L’Australia è tranquilla, forse troppo. Qua in Spagna ho trovato l’equilibrio fra tranquillità e serietà, compensato dal giusto salario. Cosicché magari lavori un’ora in più degli impiegati, ma l’esperienza ti ripaga per l’armonia della brigata e la soddisfazione del cliente, che dalla cucina aperta si percepisce appieno.
Pensi di rientrare in Italia?
Ancora non ci ho pensato. Il mio sogno era aprire il ristorante che spacca in Liguria e sarebbe una grandissima soddisfazione, ma credo troppo in questo progetto, che può ancora crescere. Mi dispiace perché sono italiano, ma anche a livello imprenditoriale sarebbe tutto più difficile.