Chef

Franco Aliberti: “Ho lasciato l’incarico di chef per fare il papà”

di:
Alessandra Meldolesi
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Copertina franco aliberti papa

Il bilanciamento fra famiglia e lavoro non è solo un’esigenza femminile. A rivendicare il pieno diritto alla paternità è in Italia Franco Aliberti, che si augura di fare scuola con il suo esempio.

La notizia

Dopo la bufera pandemica, si sa, in tanti hanno riprogrammato la loro esistenza alla ricerca di un nuovo bilanciamento fra vita privata e lavoro. Un’esigenza che non è solo femminile, ma riguarda anche professionisti intenzionati a vivere la loro paternità a tutto tondo. A farsene portavoce in Italia è Franco Aliberti, pasticciere e poi chef dal curriculum di tutto rispetto, passato per le brigate di Massimo Bottura e Alain Ducasse. Il quale recentemente ha detto basta.


Chiusa nel 2021 l’esperienza in veste di chef presso la seconda casa milanese di Enrico Bartolini, dopo aver trascorso l’estate in van per parchi scandinavi con la moglie Lisa Casali e il loro piccolo di due anni, Filippo, ha stabilito che d’ora in poi sarà il lavoro la variabile dipendente della sua vita: di cucina continuerà a occuparsi, come consulente, seguendo progetti, scrivendo libri (l’ultimo si intitola Uno e indaga su come valorizzare un singolo ingrediente nella sua interezza, in chiave no waste), ma solo in modo compatibile con la sua presenza in famiglia. Quindi lontano dai fornelli della ristorazione.



Il van con i suoi spazi ristretti gli ha insegnato a rinunciare al superfluo, concentrandosi su ciò che è essenziale, in termini di routine, suppellettili, perfino spesa dato il frigo ridotto. Fondamentalmente, quindi, sull’amore per la sua famiglia. "D'ora in poi il mio lavoro principale sarà fare il papà. Ho lasciato Bartolini esattamente un anno fa, ma già durante il lockdown avevo capito come la ricchezza maggiore fosse trascorrere il proprio tempo in famiglia. Ed è diventato sempre più frustrante non poter seguire mio figlio nella sua crescita. Ho realizzato che mi stavo perdendo troppe cose e mi sono risolto a cambiare vita. Mia moglie Lisa dirige un pool ed è impegnata tutto il giorno in orari di ufficio, quindi ho iniziato a prendermi cura stabilmente di Filippo. Ogni giorno cucino per lui, lo faccio salire sulla scala montessoriana e mi faccio aiutare. Pur vivendo a Milano, in casa abbiamo dieci alberi da frutto, una vasca e delle grondaie dove abbiamo piantato ortaggi, per mantenere il contatto con la terra. Condividere tutto questo con mio figlio rappresenta un arricchimento incredibile, anche a livello professionale, che magari un giorno diventerà un libro”.


Preciso che non vivo di rendita, come pensa qualcuno, ma sto mettendo a frutto una carriera ventennale. Non voglio rinunciare al mio lavoro, piuttosto intendo lanciare un segnale su quello che sta accadendo nella ristorazione. Tutti vedono il problema, ma nessuno cerca di affrontarlo veramente. Continuano a sfruttare i giovani ed è qualcosa che mi rattrista. Vedo contratti da 6 ore, che diventano 18, e tariffe bassissime, senza ferie. Ma un lavoro così bello bisogna farlo amare, senza imporre rinunce. La colpa non è solo dell’imprenditore, ma anche dello stato. Bisogna chiedere a gran voce delle riforme per uscire dal vicolo cieco. Se poi l’azienda è sana, la quadratura si trova; se invece è insostenibile, perché insistere? La nuova generazione è diversa da quelle che l’hanno preceduta, senza cercare alibi nel reddito di cittadinanza. Se un giorno dovessi tornare a fare il cuoco o il pasticciere, non sarebbe nel fine dining, dove alla fine mi mancava la gioia a causa della competizione esasperata. Probabilmente cercherei di rimodulare un format nuovo, che fosse compatibile per tutti”.



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