Da oltre trent’anni ai vertici della ristorazione italiana con un rinnovamento incessante propiziato da una brigata giovane ma fedele alla linea Pinchiorri
Il Ristorante
La Giovinezza del mito: la cucina di Riccardo Monco all’Enoteca Pinchiorri di Giorgio e Annie Féolde
“La fioritura della digitale purpurea è il prototipo della vita stessa con una parte in boccio, un’altra già appassita e un’altra ancora in pieno rigoglio”. Ricorda un po’ il fiore all’occhiello di John Ruskin, scrittore inglese di fine Ottocento, l’Enoteca Pinchiorri. Maison storica quante altre mai in Italia, ospitata presso il settecentesco palazzo Jacometti Ciofi, nel pieno centro di Firenze, cappello d’oro per la guida Espresso 2018.
A tutti gli effetti un monumento, poco distante dalla loggia del Lanzi e della cupola del Brunelleschi, che però oltre il vestibolo tende i muscoli di una brigata giovanissima, sia in sala che in cucina.
Con i fondatori Giorgio Pinchiorri e Annie Féolde, sul ramo ci sono Riccardo Monco e giovani talenti quali lo chef Alessandro Della Tommasina e il pasticciere Luca Lacalamita, fino ai 19 anni del commis più imberbe. Gli stessi spazi, sovrintendenza permettendo, sono vivi: la grande cucina è per l’ennesima volta in rifacimento, con l’espansione dei laboratori della pasta e della pasticceria in quella che era finora un’elegante saletta.
Li mostra Riccardo Monco, eterno ragazzo dell’Enoteca, dove lavora da 25 anni, 24 con i galloni dello chef, attualmente executive con deleghe agli spin-off di Tokyo e Dubai. Prima della diarchia con Italo Bassi per lui ci sono state esperienze al fianco di Alain Senderens, Angelo Paracucchi, pioniere di italianità il cui ricordo affiora spesso in carta, e Pietro Leemann.
Da un biennio al suo fianco c’è Alessandro Della Tommasina, toscano verace con la doppietta in spalla, entrato a 21 anni come semplice commis dopo l’alberghiero, le stagioni a Forte dei Marmi, il battesimo di Mauro Ricciardi alla Locanda della Tamerice, l’addestramento da parte di Marchesi e Berton. “All’Albereta inizialmente è stata dura: non capivo più cosa fosse un mestolo. Poi mi sono ambientato. Ma coltivavo il sogno di lavorare all’Enoteca e qui ho fatto la mia brava gavetta, girando tutte le partite fino a diventare secondo e chef. In una brigata di 20 elementi ho imparato l’importanza delle regole, ma mi è sempre stata data l’opportunità di avanzare le mie idee: ero un commis quando ho preparato una guarnizione di cavolfiore gratinato con burro all’acciuga e pane croccante, piaciuta al punto tale che Riccardo mi ha chiamato in ufficio per propormi di metterla in carta. Altri suggerimenti sono stati rifiutati, ma è stato giusto così: questo ristorante ha il suo stile che è superiore a ciascuno di noi. Con il tempo l’ho capito”.
Poi c’è Luca Lacalamita, il pasticciere (e lievitista) prodigio, all’Enoteca da 7 anni dopo importanti esperienze con Gordon Ramsay, Carlo Cracco, Ferran Adrià, Massimo Bottura e Pedro Subijana. Anche lui dice la sua in materia di tecniche per gli snack e la cucina fredda, in quello che si configura come un vero e proprio brainstorming allargato ai capi partita, in occasione di ogni cambio di carta.
Dopo le forche caudine del giudizio dei due chef, c’è quello di Annie. “Anche il signor Pinchiorri assaggia i piatti, ma l’abbinamento non ci condiziona, perché in una cantina così vasta, grazie all’abilità dei sommelier è sempre possibile trovare la bottiglia giusta. Sono abituato a lavorare in gruppo: io e Italo, io e Annie, io e Alessandro. La garanzia di una cucina calibrata”, commenta Monco.
La coralità è proprio l’antidoto che ha salvato l’Enoteca dal personalismo, sempre subordinato allo stile della casa così come impostato da Annie, che conformemente ai dettami della nouvelle cuisine fin dagli anni ’70-’80 si è adoperata per il revival del territorio. “Ci ha sempre esortato a fare cucina toscana, perché da francese temeva di essere etichettata. Quindi la valorizzazione dei nostri prodotti, che grazie alla biodiversità possono salvarci dall’omologazione: non voglio mangiare la spuma di mozzarella a Rio. Firenze è una città turistica e abbiamo il dovere di far conoscere i luoghi a chi ci visita”. Fanno eccezione un paio di piatti, inseriti in occasione del conferimento della Legion d’onore alla Grande Dame: la bouillabaisse e la terrina di fegato grasso, per la precisione.
Per il resto la parola d’ordine è “italianità”, contro il tic delle contaminazioni, nordiche, spagnole o giapponesi. “Tanto che quando ho mandato Alessandro a cambiare menu in Giappone, gli ho detto: adesso per 6 mesi non ti faccio più pensare a un piatto, perché saresti influenzato. Per un cuoco è fortissimo l’istinto di vedere gli ingredienti su una scala di colori e iniziare a mescolarli. Invece quel che abbiamo esperito dobbiamo rilasciarlo poco alla volta, in modo da non perdere la nostra linea e fare una cucina destabilizzata”. Poi la moderazione temporale: né avanguardia né tradizionalismo, ma occhi aperti su tutta la ristorazione e il compasso puntato sul presente.
Lo scriveva anche Starobinski, che il momento dell’arte deve “contenere le tracce dell’istante precedente e i segni dell’istante seguente”. Sono i tratti sopravvenienti, direbbe il gergo estetico, della moltitudine dei piatti della casa, quelli che definiscono il suo stile oltre le contingenze dei degustazione, sottoposti a variazione incessante. Si chiamano il Contemporaneo e la Scoperta, corto o lungo, rispettivamente a 250, 150 e 225 euro, e presto accoglieranno le corse di questo ipotetico menu.
I Piatti
Il pane è eccellente: se ne occupa Lacalamita, da nipote di fornaio. Niente più panini, ma grosse pezzature a base di lievito madre da mele per sidro, un retaggio di San Sebastian, e farine di grani piemontesi macinati con pietra lavica dell’Etna. Il pane di segale, lievito madre liquido sempre di segale e miglio decorticato per l’umidità, tipo porridge, viene impastato a mano per evitare surriscaldamenti, più tanta autolisi, tante pieghe, tanto riposo. Ed è servito con un olio novello toscano montato alla glicerina in fiocchi e un sorbetto amaro alla rucola.
Un piatto che disegna un percorso dal crudo al cotto. Lo compongono scampi di Livorno prima al naturale, poi al barbecue, più qualche punto di salsa delle teste, e porcini del Casentino anch’essi in variazione, crudi, glassati, in gelatina di brodo, in polvere. La stessa sorte è condivisa dalle erbe aromatiche, che vanno a morire pian piano sul piatto, fino all’origano secco di Pantelleria. Ne risulta un crescendo dalla delicatezza alla concentrazione, che emerge ancor più nitido grazie al binomio rodato.
Una tartare puristica, dalla consistenza d’antan. La battuta viene montata con acqua gassata, sale e pepe nella planetaria, per la cremosità e la fissazione del gusto. Le fanno scorta guarnizioni diverse dal consueto: al posto dello scalogno o del tuorlo, l’anguilla di Comacchio in dolceforte, con cioccolato, uvetta, pinoli e miele, sfilettata, cotta al barbecue, all’apparenza glassata ma eseguita sulla falsariga della lepre. E ancora crema di mandorle reidratate per la rotondità, ricci di mare freschi a spingere l’ittico, acqua e bastoncini di sedano per rinfrescare. Dove la complementarietà è fra pesce e carne, un classico dell’Enoteca fin dai tempi del carpaccio di orata e vitello: ferro e iodio, ma anche un’idea di acciuga sulla carne cruda; la masticazione e il grasso che rivestono il palato in contrasto con la leggerezza della carne.
“Siamo partiti da ciò che mangiava in Francia il personale: il brick à l’oeuf, con l’uovo fritto dentro un involucro di pasta. Abbiamo provato anche la phyllo, poi abbiamo optato per la pasta cinese di riso, quella degli involtini. La farciamo con tuberi vari, dal topinambur alla rapa, cotti in crosta di albume al pepe di Sichuan, per trattenere l’acqua di vegetazione e preservare il gusto; in questo modo restano fondenti e succosi attorno al tuorlo liquido. Sopra c’è un topping di elementi fritti disidratati, sempre sul filo del sottobosco: funghi, pancetta di maiale, acciuga e tartufo. Terra su terra”.
Ravioli di verza e ricotta arrostiti, non bolliti, caviale, purea di mela e latte di aringa affumicato
Il punto di partenza è stato il ricordo dei ravioli di ricotta, fiori di zucca e burro di Angelo Paracucchi, maestro di primi piatti, con la loro pasta fondente di manitoba e acqua calda. In cerca di una diversa consistenza viene invertita la cottura di una semplice pasta morta italiana, composta di acqua e farina: prima tostata in olio di oliva, viene poi sfumata col brodo, alla maniera orientale. Dentro e fuori un rimpallo di ittico e lattico, sapidità e rotondità: la farcia è di verza e mascarpone; il condimento di latte di aringa affumicata, crema di mele e caviale. Sul filo del classico: mele e aringa, caviale e pannosità.
Un piatto familiare, approfondito nella concentrazione. Il riso viene cotto non nel brodo, ma in un’estrazione di zucca alla Greenstar, che massimizza colore e sapore, in assenza di fibre che involgarirebbero la testura. L’indispensabile acidità arriva dalla zucca marinata in aceto di mele e dalla testina di vitello, effetto midollo per un’ulteriore mantecatura in bocca; più i semi di zucca fritti, croccanti e salati per il crunch.
Toscanità e kaiseki. La zuppa di pesce ha il sapore di sempre, ma il filetto di scorfano è preparato secondo una tecnica orientale: marinato e finito al vapore, viene asciugato e croccantato sulle scaglie sopra una griglia, effetto chips, versando mestolini di olio bollente in superficie. È poi ottima, quale piatto di passaggio al secondo vero e proprio, la costina di vitello disossata e glassata con cicoria e pompelmo, acida e fredda.
Piccione in crosta di fave di cacao e sale, con chutney di mango, carota alla paprica e salsa alla diavola
“Di preparazioni del piccione ne abbiamo provate diverse, dalla crosta di pane alla doppia cottura con grigliatura, in cerca di un’alternativa alla maniera francese. In questo caso siamo partiti dalla crosta di sale del pesce e l’abbiamo variata con le fave di cacao, ottenendo un involucro profumato e scuro, in linea con un classico abbinamento della selvaggina. Il piccione al suo interno, fiorentino e di voliera, è stato precedentemente disossato e farcito di pane toscano saltato al lardo di Colonnata ed erbe aromatiche, poi arrostito intero. Completano il piatto il chutney di mango alla senape, la salsa alla diavola, le carote glassate nella loro acqua alla paprica, la salsa ai fegatini”.
I dessert, fra i migliori della ristorazione italiana, sono firmati da Luca Lacalamita, pasticciere non meno tecnico che creativo. “La noce è un frutto secco di difficile utilizzo, perché grasso, forte, spesso rancido, non sempre eccellente. Quindi richiede un lavoro di aromaticità. Abbiamo ricreato i gherigli con una mousse di cioccolato caramellato e pasta di noci tostate in purezza. Per alleggerire e contrastare c’è la carota: in gel da estrazione a freddo per la terrosità e in purea previa cottura sottovuoto al vapore, effetto canditura inversa con lo zucchero; più la pera williams per stabilizzare, il gelato base fiordilatte alle noci, il biscotto sifonato di noci e succo di carota, la radice cruda grattugiata alla base a rinfrescare”. Frutta secca e carote, in un virtuosistico tripudio di italianità.
“Siamo sulla stessa linea di essenzialità, perché essere semplici è la cosa più difficile. In questo caso lavoro sul croccante, che è il principio di individuazione del millefoglie. Quindi la pasta sfoglia stesa con la macchina per la pasta e cotta fra due placche alternata a un croccante all’extravergine, base lingua di gatto all’amido di mais. Da amante della frutta li intervallo con un crescendo di creme di agrumi: pasticciera al mandarino, poi bergamotto, yuzu, arancia”. Completano il dessert il caramello di agrumi, il biscotto morbido all’extravergine, gel di latte alla vaniglia e al mandarino. Con la presentazione in verticale a salvaguardare il crunch.
“Un dolce toscano e non solo, i cui elementi chiave sono virati su diverse consistenze e temperature, per esprimere una visione personale e amplificare i profumi. La base è un biscotto di castagne, albumi e farina di castagne, steso e dressato come un castagnaccio, con pinoli, uvetta e rosmarino. Più gelato fiordilatte, pinoli e rosmarino, caldarroste e marron glacé, per valorizzare il frutto; crema morbida di farina di castagne, caramello di cioccolato caramellato, croccante di mela e mela candita a freddo in osmosi”.
Indirizzo
Ristorante Enoteca PinchiorriVia Ghibellina n 87 - 50122 Firenze
Tel. +39 055 242757
Il sito web