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Primo cuoco di Calabria e fra i migliori giovani d’Italia: la metamorfosi di Luca Abbruzzino

di:
Alessandra Meldolesi
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Le tecniche e gli standard, sono internazionali, ma nel piatto la territorialità detta legge: questa è la cucina di Luca Abbruzzino, primo cuoco di Calabria e fra i migliori giovani d’Italia.

La Storia

Va un po’ stretto, ormai, a Luca Abbruzzino, primo cuoco di Calabria e fra i migliori giovani d’Italia, il ristorantino aperto dal padre appena fuori Catanzaro nel 2008. Come un vestito ben stirato, dentro il quale la crescita, tuttavia, non si è mai arrestata. Qui Antonio aveva deciso di diventare stanziale, dopo anni da cuoco autodidatta per stagioni qua e là, raggiungendo esiti apprezzabili e mettendo a punto qualche signature, tuttora in carta, come Pane, olio e zucchero. “Ma mio figlio è molto più bravo di me”, riconosce col sorriso. E di fatto la complicità fra i due è totale.


È iniziata un po’ per caso, quando Luca, dopo il liceo scientifico, si era trasferito a Roma per frequentare la facoltà di economia. “Allora è successo che mio padre ha avuto qualche problema con il personale e sebbene avessi fino a quel momento dato una mano solo in sala, mi ha chiesto di stargli un po’ a fianco. Dovevo fermarmi un mesetto, ma non sono più ripartito. Ho capito che mi piaceva tanto, anche se inizialmente è stata dura e di certo non ha avuto un occhio di riguardo. Avevo già studiato da sommelier e nei tempi morti ho cominciato a fare qualche stage, anche se lui mi frenava, per timore che non avessi ancora sviluppato senso critico e palato. Il passaggio di consegne è stato graduale, fino al 2013, quando è entrato in carta il primo piatto interamente mio, i fusilloni con ‘nduja, pecorino e ricci di mare. Oggi ci supportiamo a vicenda: mi aiuta soprattutto al di fuori della cucina e testa i piatti. Ma a comandare davvero è mia mamma Rosa, che segue i conti, la sala, la cantina, il food cost”.


In una regione che resta ancora largamente da scoprire, perfino per chi ci vive e ci lavora, e che mostra purtuttavia un dinamismo inquieto, sia nel food che nel vino, Abbruzzino non ha perso un secondo: fuori stagione ha mollato gli ormeggi in direzione Torre del Saracino, Piazza Duomo e per due volte Uliassi; poi ci sono stati Piergiorgio Parini, Jean-François Piège, Michel Bras a Hokkaido e di nuovo Crippa. “Perché mi piaceva l’organizzazione molto francese, molto precisa, oltre alla cucina, quindi volevo tornare con una maturità diversa. Mentre Parini, con cui resto a stretto contatto, per me è un vulcano di idee, eravamo in quattro in cucina e tutti facevano tutto. Ho imparato tanto, anche in pasticceria. La sua resta una cucina molto personale, non replicabile. Qualcosa tuttavia mi è rimasto: l’utilizzo delle spezie, le parti amare, l’essenzialità di alcuni piatti. Soprattutto il coraggio di usare l’istinto. Stargli dietro non era affatto facile”.


Sono due i piatti, assaggiati con i soldi delle mance, che hanno segnato la strada: la Prima secca di Uliassi, capolavoro calligrafico di vongole e mandorle, del cui purismo, coincidenza di gusto e concetto, nell’esplosione senigalliese odierna si avverte la nostalgia; e l’astice al barbecue con rapa rossa e frutti rossi di Piège, classico ma imperfettibile per costruzione, esecuzione, cottura. “È così che voglio cucinare”, mi sono detto. “Ma continuo a girare più che posso, non solo in Italia, per capire punti deboli e forti”. All’attività del ristorante con i suoi 7 tavoli si sono unite negli ultimi anni due strutture per la banchettistica, a Lamezia e vicino a Reggio. “Un allenamento anche manuale: non è scontato mantecare per 200 persone”.


Le tecniche e gli standard, quindi, sono internazionali, ma nel piatto la territorialità detta legge. La cantina mette in fila 450 etichette, con carte dedicate all’Italia, al resto del mondo e soprattutto alla Calabria, di cui si scandaglia la nouvelle vague dei Cirò boys e non solo. Mentre la spesa è appannaggio un po’ di tutti, anche di Luca, che cerca il confronto diretto con i fornitori, i pescivendoli che vanno all’asta con la lista della spesa come i contadini e i casari. La materia sicuramente non manca. “Questo è un luogo acerbo”, dice Luca. “Le cose sono più difficili, perché la gente fatica ad arrivare e magari non è pronta; ma anche più facili, perché prima di noi non c’era nessuno. Occorre innanzitutto creare sinergie, ma le potenzialità sono incalcolabili grazie a un territorio fantastico, affacciato su due mari con la montagna nel mezzo”.

I Piatti

La carta non c’è, ma è possibile comporre a scelta menu di 4, 7 e 8 portate, al prezzo di 65, 80 e 95 euro. Conservano qualche signature, che consente di misurare l’avanzata di un riso stile inizialmente controllato e “classico”, poi vieppiù libero e sicuro, in un cammino a ritroso dalla maturità verso una giovinezza che trae ispirazione dalla nobilitazione del quotidiano e celebra la liquida solarità dell’estate, senza bisogno di lambiccature. Come se sotto la patina della prudenza qualche graffio iniziasse a svelare la luce rifrangente di Parini. Abbruzzino ha lungamente parcheggiato il suo talento nel classico, immagazzinandone il senso sottile dell’equilibrio, il gusto obliquo del riferimento, la padronanza di salse e cotture; ma sembra pronto per rimettersi in marcia senza fretta con una consapevolezza ulteriore.


C’è il gambero bianco ovato con le sue uova blu, servito a carpaccio con la merendella, frutto locale intermedio fra una mela e una pesca, e il suo gel, salsa di yogurt al pepe verde e caviale, antipasto di impianto elegantemente classico.


E poi c’è l’ottima ricciola, tagliata spessa in stile giap per la masticazione, marinata nell’olio di pomodori secchi e bruciata al cannello per l’amaro, servita con acqua di pomodoro e pesca in carpione come se fosse un’insalata. Piatto che è una sommatoria di gesti elementari, antidimostrativo, straordinariamente maturo.


Baccalà e ciliegie è un signature, ispirato alla tradizione locale del merluzzo conservato, sottoposto a ripetuti autoremake. Oggi si compone di zuppa collosa di trippe, estratto di alloro amaro, bergamotto candito in casa, trancio cotto a bassa temperatura, salsa delle lische infarinate al burro, tipo mugnaia, e ciliegie sottaceto; mentre gli scarti formano una seconda uscita di cialda di ciliegia, baccalà mantecato e gel di ciliegia. In equilibrio fra sapidità e amaro, dolcezza e acidità.

Risotto




Scalpita quindi lo spaghetto tiepido alla melanzana affumicata e ricci di mare, ingredienti uniti dalla dolcezza leggermente amara, che intrecciano il brûlé allo iodio. Dove l’ortaggio è bruciato al barbecue, ridotto in succo e portato a consistenza sciropposa con poco zenzero e soia. Il condimento si ottiene emulsionando quest’acqua con olio e ricci di mare e mantecando la pasta calda in una boule, come se fosse una carbonara. Di nuovo gesti elementari e padronanza del gusto, per una cucina che ha la giovinezza dell’azzardo insieme alla semplicità della maturità.


Sono appena due gli ingredienti dei bottoni, pane e tartufo, ma ricchi di valori sociali. “Recuperiamo il pane raffermo e lo utilizziamo per preparare il tipico pancotto con brodo e cipolla, poi condiamo con formaggio e noce moscata, come se fosse una farcia di carne. Il consommé è di pane bruciato con una partenza di brodo di carne. Ma non è un pagnotta qualsiasi: è scura e acidula da lievito madre, ricchissima di note terziarie, tanto che lo scorzone diventa quasi un comprimario che serve ad allungarla”.


Lavora di fioretto sul più banale dei secondi marinari, fin dal titolo, il pesce del giorno. Viene cotto al vapore con brodo della testa e profumi mediterranei di erbe e agrumi, poi il liquido ridotto è emulsionato con ostriche crude, sul piatto con cetriolo grigliato e olive infornate in crema per l’amaro. Perché l’eleganza è fatta di dosaggi e di dettagli, più che di effetti speciali in quella che resta la litote di un pesce con la sua insalata.


Ma c’è anche l’anatra al barbecue con pomodoro, cipolla, basilico, mousse di fegato grasso e cosce, più un calice di kombucha all’insalata per ripulire. Dove stupisce l’interpretazione quotidiana e anticlassica di una carne feticcio. “È importante conoscere le basi: voglio essere francese nel rigore, senza rinnegare le mie origini. Quindi una volta conosciuto il punto di cottura ideale, preferisco adottare una tecnica contadina. Cuocio il volatile al barbecue sulla carcassa, ma protagonista è l’insalata di tutti i tipi di pomodori estivi, cipolla di Tropea in carpione, basilico ed erba cipollina. Dagli scarti ricavo un acqua di pomodoro condita come un’insalata che faccio fermentare con la madre della kombucha, per ottenere una bibita frizzante da servire alla fine”.

Maiale, carota, nespola e senape



Per il dessert come accennato, resta in carta Pane, olio e zucchero, nella forma di una crema di olio con caramello salato, cialda di grano bruciato, gelato al pane, sempre a lievito madre ma bianco. Perché la strada verso l’endocucina era già tracciata da papà Antonio.


C'è anche il sorbetto al kumquat con il suo gel, cremoso, crumble e spugna al pistacchio, fresco e amaro a fine pasto. Anche qui due ingredienti e dei più familiari, visto che questo piccolo agrume totale, completo di buccia nel sorbetto, nei giardini di Catanzaro si è bene ambientato.

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