Anteprima della meta descrizione:Che cosa occorre sapere per comprendere il successo del Noma: luoghi, uomini e storie dietro il ristorante più famoso del mondo.
La Storia
La filosofia di Renè Redzepi
Città del Messico, 20 ottobre 1968. Il ventunenne americano Dick Fosbury tiene qualche secondo lo sguardo a terra e i pugni stretti, poi prende una lunga rincorsa e sale in cielo con un balzo che segna la storia dell’atletica leggera. Vince l’oro olimpico, ma soprattutto cambia la logica di uno sport, superando l’asticella di schiena senza nemmeno guardarla, e relegando in un istante alla preistoria venti secoli di saltatori in alto coi loro slanci in avanti. È un brusco strappo col passato che spalanca un mondo nuovo, e da principio spaventa perché ha il profumo illogico della rivoluzione; di lì a poco, però, nessuno salterà mai più in altra maniera. Trentacinque anni dopo, Renè Redzepi compie un balzo dorsale ancora più clamoroso, perché la sua rivoluzione bianca non si limita a modificare le regole di una disciplina, ma porta al cambiamento culturale di una nazione, coinvolgendo lungo il percorso l’intera area nordica d’Europa.
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Quando si parla del Noma si tende spesso (specie noi italiani) a ridurre erroneamente tutto alla cucina, cercando di definirla buona o meno buona secondo parametri presi in prestito dalla NOSTRA tradizione gastronomica. Partendo da simili presupposti è normale che in molti casi le aspettative vengano deluse, perché la cucina per Redzepi è più che altro uno strumento utile a comunicare un profondo senso di appartenenza, di cui i piatti non sono che la godibile crosta in superficie. Quella da molti definita una linea culinaria pensata per stupire e far parlare, è in realtà frutto della necessità, così come la scelta di alcuni ingredienti estremi (muschio e formiche su tutti) non dipende dal desiderio di andare controcorrente, quanto dal tentativo di raccontare in modo sincero ma piacevole una terra magra e poco generosa. Trapiantarla altrove così com’è non avrebbe alcun senso, perché significherebbe privarla del suo motore principale, la Danimarca; adattarla invece a seconda del contesto geografico (come avverrà durante il trasferimento temporaneo del Noma in Australia previsto in gennaio) può dare vita a nuovi risultati imprevedibili. In questo senso Renè Redzepi è Dick Fosbury, perché ha mostrato al mondo come si creano le basi di una cucina nazionale, ed è facile immaginare quanti Paesi aridi di gastronomia trarranno presto o tardi beneficio dalla sua lezione.
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La prospettiva di partenza è quella ereditata dal suo mentore Ferran Adrià, ovvero l’idea che il cibo sia potenzialmente un buon modo di comunicare e non solo semplice benzina per il corpo. Da Adrià in poi una larga fetta di pubblico ha accettato che in alcuni ristoranti si possa andare alla ricerca di un’esperienza culturale, come a teatro o a un concerto, oppure divertirsi giocando con provocazioni costruite attorno a riletture tecniche di ricette classiche. L’obbiettivo ultimo del cuoco deve rimanere la produzione di bocconi dal sapore memorabile, ma l’organizzazione del pasto e le scenografie di contorno sono a totale discrezione dell’estro di ognuno.
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Massimo Bottura, a sua volta passato in bottega dal genio catalano, ha metabolizzato le intuizioni del maestro e le ha portate a un livello successivo, sfruttandole per aggiornare e divulgare le radici del gusto italiano, dando un taglio contemporaneo più narrativo alle intenzioni che furono dei Bergese, dei Cantarelli, dei Paracucchi… ma prima ancora delle nostre massaie.
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Redzepi ha compiuto un gesto diverso, per certi aspetti titanico e impensabile, creando dal nulla la tradizione gastronomica danese e contribuendo all’evoluzione di quella scandinava in generale. Non si è limitato a far incontrare sapori locali e cucina molecolare, ma ha introdotto decine di ingredienti autoctoni mai usati prima, forgiando un gusto nazionale di cui non esiste traccia prima del suo passaggio. Oggi a Copenhagen si mangia mediamente meglio che in molte grandi città italiane, sia nei ristoranti d’alto profilo sia in bistrot o chioschi di street food (per esempio Hija de Sànchez, eccellente taco-bar aperto da un ex cuoco del Noma), e non può non far riflettere pensare che tutto questo si debba a un solo uomo.
I Piatti
<Per capire al meglio l’importanza di Redzepi, bisogna girovagare qualche giorno nella sua città con sguardo laico, così da rendersi conto di alcuni dettagli che raccontano della filosofia con cui sta contagiando un intero popolo. In questo periodo autunnale, per esempio, una delle due sole portate calde dell’intero menu del Noma è un’anatra selvatica cotta sulle braci che stanno nel cortile esterno, un piatto semplice e succulento. L’aspetto curioso lo si scopre però nei giorni successivi, andando al Relae di Christian Puglisi (33enne siciliano discepolo di Redzepi, oggi proprietario di quattro locali nella zona nord-ovest di Copenhagen), o all’Amass di Matt Orlando (ex head-chef del Noma che Redzepi stesso ha aiutato a mettersi in proprio, come sovente avviene). In entrambi i casi, la portata principale è una e senza possibilità di scelta: anatra selvatica. Verrebbe facile attribuire questa ripetizione alla mancanza di spunti, ma la realtà è ben diversa e molto più interessante, perché figlia della volontà d’essere onesti. I danesi non hanno maiali di Cinta Senese, né Fassona o Chianina, e piuttosto che ricorrere a ingredienti esotici, Renè e i ragazzi della “nordic wave” da lui formati preferiscono non barare, sforzandosi di trovare modi sempre diversi per presentare il limitato numero di prodotti a loro disposizione.
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Questo non significa pauperismo e rifiuto degli ingredienti nobili, ma piuttosto necessità di maggiore ricerca, grazie alla quale si può poi arrivare a disporre di meraviglie come le “Mahogany clams”, o vongole centenarie, che potenzialmente vivono fino a 400 anni e vengono pescate una ad una da un sommozzatore che ha il permesso di agire soltanto in un ristretto periodo dell’anno. Sono carnose e intense oltre che rare e costosissime (il prezzo di una sola vongola viaggia intorno ai 30 euro), il che le rende per certi versi il “foie gras del Noma”.
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Le foglie nere in foto vengono invece plasmate con l’aglio fermentato, e le gocce cremose in superficie non sono che purea di grilli, qui presente per dare un tocco di acidità e una dolcezza particolare. Terreno fertile per i detrattori di Redzepi che lo accusano di giocare con gli insetti al fine di turbare il pubblico, quando in realtà si tratta nuovamente di una scelta dettata dall’esigenza. Noi useremmo degli splendidi limoni sfusati di Amalfi o magari dei pomodorini del piennolo, ma se si considera di nuovo che la Danimarca non è l’Italia, ecco i grilli assumere un significato diverso e coerente. Anche le fermentazioni (gestite dal vulcanico Lars Williams, responsabile pure della ricerca su garum e aceti), sebbene siano poi dilagate in tutta Europa perdendo la loro funzione originale, nascono dalla necessità di conservare a lungo i vegetali raccolti durante la primavera, in vista delle glaciali temperature nordiche che rende impossibile reperire ingredienti freschi durante l’inverno. Al fianco di tutta questa poesia, non manca poi una moderata vena pop utile a raccontare uno scorcio di vita quotidiana, leggibile in un dessert a base d’olio di nocciola e Gammel Dansk, un liquore amaro da grande distribuzione cugino danese del nostro Fernet-Branca.
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Il Noma non va quindi considerato solo come un locale, ma come un laboratorio in continuo fermento dove lavorano ogni giorno cinquanta e più ragazzi di circa venti nazionalità diverse (tre dei quali italiani: Riccardo Canella, Edoardo Fiaschi e Jessica Natali, appena ventunenne e arrivata qui due anni fa da quasi neofita) con l’unico fine di cucinare, sperimentare e regalare ai clienti piccoli ricordi indelebili. Solo una ventina di loro sono assunti, gli altri sono tutti stagisti che con il loro viavai rendono la porta del Noma simile a quella di un saloon, e consentono un ricambio continuo d’idee e suggestioni. La sala chiave del ristorante, paradossalmente, sta al piano di sopra ed è interdetta al pubblico. È in quella stanza il cuore pulsante del Noma, perché se da un lato serve come disimpegno della brigata (con tanto di tavoli per mangiare, librerie e perfino un calciobalilla), dall’altro comprende la cosiddetta “test kitchen”, dove si provano tecniche e nuovi piatti.
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Riccardo è fra i ragazzi italiani del Noma quello con maggiore esperienza alle spalle (è approdato qui dopo diversi anni con Massimiliano Alajmo alle Calandre), ed è interessante sentirgli dire “…amo lo stampo classico e all’epoca di Rubano ero affascinato dalle immagini dei piatti di Renè più che dai gusti, perché quelli non avevo la minima idea di come prefigurarmeli. Mi dicevo: ma la loro cucina come può essere tanto grande, se non hanno neanche il 10% dei nostri prodotti? Non capivo proprio e ho sentito che dovevo per forza venire su a farmi un’idea”. Dal suo arrivo è passato un anno, e un’idea della cucina di Redzepi ormai se la dev’essere fatta, eppure non sembra per nulla intenzionato ad andarsene nonostante la fatica, la pressione e gli orari spesso folli. Non ha rinnegato l’Italia in alcun modo né esclude un ritorno futuro, ma per ora sta bene dov’è; forse perché ha fiutato il profumo illogico della rivoluzione, proprio come chi era quel giorno d’ottobre a Città del Messico e racconta ancora oggi di aver visto un americano inventare il volo.
(nota dell’autore: un ringraziamento a Dick Fosbury e ad Alessandro Baricco)
La fotografia di copertina è di Peter Brinch
Indirizzo
Noma RestaurantStrandgade 93
DK-1401 Copenhagen K
Tel. +45 3296 3297
Mail: noma@noma.dk
Il sito web del ristorante Noma