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Basque Culinary Center: i big della cucina italiana riuniti a San Sebastian

di:
Marco Colognese
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Un gruppo di grandi cuochi italiani e un convegno che intercetta le ultime tendenze gastronomiche: lo Stivale approda al Basque Culinary Center per raccontare la cucina del futuro.

L'evento

L'evento


Essere presenti a L’Italia al Basque Culinary Center è stato formativo, non soltanto per gli studenti di questa istituzione, un centro di ricerca della gastronomia dal prestigio internazionale conclamato, ma anche per noi. Menti pensanti dell’esperienza sono stati Paolo Marchi, padre di Identità Golose e Joxe Mari Aizega, direttore della scuola. Introdotto da John Regefalk, responsabile per il settore Innovación Culinaria, Marchi racconta agli studenti: “L’idea di dare una visione della cultura gastronomica italiana è nata a cena con Joxe Mari durante l’ultima edizione di Identità, congresso che ho creato nel 2004 sulla scia de Lo Mejor de la Gastronomia (che oggi è Gastronomika) e Madrid Fusion.


Tantissimi erano i professionisti italiani invitati e anche tanta stampa, però c’era una cosa che a me non piaceva per niente, perché alcuni cuochi venivano a copiare e da studenti copiare è la cosa più stupida che ci possa essere. Il mestiere si ruba, bisogna scegliere un mentore, un esempio, una linea guida, capire cosa ci possa essere di utile, ma poi metterci dentro cuore, la testa gli insegnamenti appresi. Se copiate, gli originali saranno sempre migliori, per cui bisogna cercare una strada personale. La seconda questione era che in Italia tutto questo non si veniva a sapere bene. E conclude: “Noi italiani siamo condannati a essere la patria della pizza, della pasta e del risotto, tante cose buonissime, tante situazioni bellissime, ma chi si trova in città come Firenze o Roma non bada tanto a quello che mangia, perché gli basta la bellezza che trova: questo è un grande freno per i nostri cuochi più innovativi, quelli che partendo dai prodotti e dalla storia nostra vogliono andare un po’ più avanti, alzare l’asticella.”


Ecco che i cuochi invitati a parlare rappresentano, ciascuno nel suo ambito e con la sua visione della cucina, un’idea della vastità dell’Italia gastronomica e delle sue peculiarità.

I cuochi


Antonia Klugmann 


Ascoltare Antonia Klugmann è sempre coinvolgente, perché è lei a essere per prima realmente coinvolta in quel che sostiene. La sua non è una storia di maniera, confezionata ad hoc per un palco, ma un flusso di coscienza legato a un’esperienza che non smette di rinnovarsi: “Il mio menu si chiama Territorio: vita in movimento e rappresenta il percorso che stagionalmente il cuoco deve vivere per relazionarsi con l’ingrediente. Significa cambiare ripetutamente nel corso di una vita professionale, essere in continua evoluzione e mettersi dubbio; cercare al di fuori di sé attraverso lo studio e la relazione con l’ingrediente un continuo stimolo. Ma soprattutto, pretendere da se stessi un cambiamento continuo. Nel mio caso ho scelto di occuparmi di ingredienti poveri locali, interessanti per me dal punto di vista del gusto: si capisce bene che nel momento in cui tu ti relazioni con lo stesso ingrediente per una vita, quello che cambia e che rende la cucina interessante è il movimento interno del cuoco, i cambiamenti che  vive.


Perciò, continua Antonia, “ogni piatto, se il cuoco è sincero nel suo percorso creativo, dev’essere la fotografia di quel suo particolare momento di vita.”. Due sono i piatti che ha presentato a San Sebastian :”Due primi perché, dall’estero vengono più intesi come italiani.” Sono frutto di quello che Antonia ha definito il suo percorso di comprensione dell’agricoltura, secondo lei “essenziale per capire la materia prima e soprattutto perché quando si dice sostenibilità non si parli di aria fritta, ma di comprendere le risorse idriche e del suolo, di quel che implica il trasferimento delle merci e di razionalizzare gli sforzi di cucina perché ci siano meno sprechi possibili: sono processi che diventano molto concreti, se vengono analizzati con attenzione. Non è greenwashing, ma sono scelte pratiche che ciascun cuoco può fare senza restare in superficie, perché la superficialità nella relazione con l’ingrediente è grave quasi come un piatto cattivo, nel mio caso.”


Ecco allora il suo gnocco di mais Biancoperla. La pianta è coltivata nel pordenonese, dove un caro amico ha selezionato i semi per 4 anni. Semi che neppure in un estate di grande siccità come questa hanno preso un millilitro d’acqua, mentre molti prodotti da agricoltura intensiva non sono proprio cresciuti. Questione di rispetto del suolo attraverso pratiche di rotazione e di selezione di sementi adatte al clima. Aspetti, questi, ai quali un cuoco deve essere sensibile. Allo gnocco vengono abbinati un brodo di mais fresco e una purea dello stesso. Viene piastrato e caramellizzato leggermente, per essere poi profumato con olio al ginepro e acqua di Parmigiano Reggiano estratta a freddo per una glassatura. Viene poi spolverato con glucosio e sottoposto alla fiamma del cannello. L’altro primo è una pasta, i sottili capellini cotti in un brodo amaro di cardi dell’orto a Vencò, puliti dalle foglie esterne e messi in casseruola a stufare. Infine una purea di olive verdi di Castelvetrano (straordinariamente interessanti a detta di Antonia), acqua di liquirizia e yogurt intero.


Andrea Tortora


Andrea Tortora è un giovane mito della pasticceria italiana, in primis per quel che riguarda i grandi lievitati. Il suo è uno di quei panettoni che una volta assaggiati non si scordano e, va ricordato, il panettone è il prodotto dolciario più conosciuto, imitato e replicato al mondo. Il suo intervento a San Sebastian è stato particolarmente interessante, a partire dalla descrizione degli aspetti organizzativi del suo lavoro che impattano su qualità e sostenibilità. E del fattore tempo, estremamente strategico: “Tempo, ricerca della materia prima, tecnica, tecnologia. In pochi anni siamo arrivati a fare cinquantamila panettoni in due mesi. La mia idea è quella di non fermare il prodotto in un magazzino, stoccandolo, ma avere sempre un prodotto fresco. Dentro ci sono territorio, animali, farina, grano: il grano è terreno e il terreno è clima e tutto è in continua evoluzione. Questa evoluzione dobbiamo tenerla viva anche noi, viaggiando, trasmettendo punti di vista, trovando un punto d’incontro.”


Tortora inizia la sua carriera come cuoco: “è stato illuminante, io non conoscevo prodotti come la patata viola, il cardamomo; la vaniglia era un barattolo bianco che si vedeva sullo scaffale in pasticceria. Ho capito che non sapevo e lì è iniziato il mio viaggiare che mi ha portato in tutti i continenti, permettendomi di portare lontano la mia visione e anche di raccoglierne di differenti. Oggi la contaminazione dev’essere in primis ascoltare e poi parlare.” E ancora, il tema della sottrazione: “Una grande opportunità, perché oggi il prodotto diventa perfetto non quando non ho più niente da aggiungere, ma quando non ho più niente da togliere.” Cosa fa un pasticcere oggi? “Io porto il rigore di una brigata di cucina in pasticceria. Bisogna andare a fondo e guardare la tradizione con un occhio contemporaneo, entrare nel dettaglio e capire cosa sia davvero la perfezione", per la quale fa l’esempio di un grande classico.


Il cannoncino, simbolo della Belle Epoque: nel cabaret italiano per eccellenza non può non esserci. Ma quasi mai lo troviamo buono, perché il cannoncino richiede immediatezza: dev’essere cotto in giornata, deve avere degli strati sottili di sfoglia, ma non troppo esagerati perché oggi tendiamo troppo a esaltare. Sui social vediamo pagnotte aperte, panettoni aperti, sfoglie alte tanto così: ma poi riusciamo a mangiarle, senza combinare un disastro? Allora la perfezione sta proprio nel capire lo spessore ideale e andarlo a lavorare, nel caramellarlo in giornata. E la caramellatura dev’essere gentile, non troppo accentuata, perché non devo trovare quelle note di amaro ma devo togliere le note dolci di troppo, quindi uso una tecnica in cui aggiungo zucchero ma sottraendogli la parte dolce. Infine, dev’essere assolutamente farcito al momento, quando il nostro ospite è davanti a noi, perché dobbiamo dedicargli il tempo che merita un grande prodotto.


Un altro esempio è la tarte tatin, dove tutto sommato si dimostra che la perfezione, quella estetica, in realtà non dovrebbe esistere, non certamente a scapito del gusto: “Se prendiamo una tatin non è perfetta, dalle parti più caramellate in poi: la bellezza è anche l’imperfezione, perciò dobbiamo uscire da quei canoni in cui ci troviamo a coppare, tagliare, squadrare solo perché un dolce deve apparire impeccabile. Ma impeccabile per chi, per il mio ego o per la persona che lo potrà apprezzare? L’imperfezione in questo caso è fondamentale, perché significa tornare alla bellezza di un dolce semplice, con la ricerca di consistenza, temperatura, convivialità...e chi se ne importa se la quenelle un po’ si squaglia!” Andrea ha un pensiero preciso anche sul tema della sostenibilità, partendo da una domanda provocatoriamente intelligente legata allo spreco: Perché spendiamo tutto questo tempo a cercare di capire cosa fare con qualcosa che è avanzato quando invece potremmo produrne di meno senza farlo avanzare? È inutile investire e perdere tempo per dover pensare a cosa fare con quello che si avanza e a dover trovare una definizione di marketing per giustificarlo. Non c’è un piano B per il pianeta. Se tutti facciamo sempre di più, aumentando e aumentando ancora la produzione. Ci stiamo assuefacendo a tutto questo.


E prosegue: “Abbiamo tradizioni e cultura centenarie e ci perdiamo dietro al business. Certo non possiamo pensare non esista, anche AT Patissier è un’azienda che deve stare in piedi, ma dobbiamo farlo in modo sostenibile. Il panettone è una delle cose più insostenibili che ci sono sul mercato, allora come facciamo? Cerchiamo la semplicità nella filiera: l’azienda produce senza stress e spedisce il giorno dopo la produzione, senza fare magazzino. Produciamo solo quello che ci serve e tutto è già venduto da agosto, quindi i nostri fornitori e i nostri dipendenti sono a posto. La stessa azienda ha già incassato mesi prima, con liquidità certa per pagare, crescere e fare investimenti.” 

Franco Pepe


Come sostiene Paolo Marchi, fare delle cose nuove sulla pizza è estremamente difficile, perché tutti abbiamo in mente qualcosa che già avevamo mangiato prima. Franco Pepe c’è riuscito a Caiazzo, a nord di Caserta: la sua storia lascia una profonda emozione nel pensare a quello che ha fatto.” Così sale sul palco a San Sebastian e lancia subito una piccola provocazione al suo mondo: “20 anni fa non avrei mai pensato di poter essere qui a parlarvi di formazione, in Italia stiamo ancora aspettando che ci formino, c’è una mancanza assoluta di sapere che porta a una dinamica di litigi e auspichiamo che si possa crescere.


Franco è un ex insegnante di educazione fisica: “Mi prendevo cura dei giovani e sapevo che un buon risultato agonistico non arriva mai solo. Ecco perché in questi dieci anni di Pepe in Grani, a seguito del percorso con mio padre, ho deciso di lavorare sulla formazione, sulla ricerca e sull’accoglienza al cliente, cercando un approccio diverso. Ho sofferto molto il problema dell’identità: negli anni ottanta tutto si muoveva attorno alla figura del pizzaiolo, la stessa pizzeria ne prendeva il nome e tutto si concentrava lì. Ho pensato allora di creare un team e di scomporre questa figura per equilibrare il carico di lavoro sui ragazzi. E ne vado fiero, perché ieri il mio team ha accolto 350 persone e a sostituirmi non c’era un pizzaiolo ma una squadra”. Quindi ora per Pepe la figura del professionista è in qualche modo scomposta in persone che diventano una, il banchista che stende l’impasto e può condire la pizza e poi “la figura del fornaio è a sé, difficile da formare anche solo per la differenza tra forno elettrico e forno a legna.


Ancora, ci sono i passisti, i quali quando il fornaio tira fuori la pizza “la puliscono sotto e decidono se può essere completata con gli ingredienti che non vanno sottoposti ai 400°C del forno e poi la portano a tavola e la raccontano: sono l’ultimo anello che garantisce la qualità del prodotto che parte dagli impastatori”. La posizione di Franco Pepe in tema di tradizione ne conferma la saggezza: “Non possiamo lasciare tutto alla tradizione, io ho messo in discussione il lavoro che ho fatto con mio padre e poi da solo. Mio figlio dovrà fare altrettanto con me e con quello che sto realizzando: se non metti in discussione la tradizione attraverso l’innovazione, non ci sarà mai un’evoluzione.” Fermo il fatto che la pizza deve rimanere popolare, c’è bisogno di lavorare in modo diverso rispetto al passato. Ecco che allora Franco, dopo la celebre Margherita ‘sbagliata’ e la Marinara ‘ritrovata’, ora parla di “regola del capriccio”, trasformando la celeberrima Capricciosa in una pizza alla Pepe  . Si parte da un prodotto confuso perché “veniva condita con tutto quello che c’era sul banco” e non si distinguevano correttamente gli elementi. Ora olive e capperi sono disidratati, il basilico si trasforma in salsa e il pomodoro è un’elegante sfoglia lavorata al silpat, mentre i funghi sono in tempura e le acciughe sono sostituite dalla colatura di alici. E poi il cliente ci può giocare, realizzando il suo condimento personalizzato.

Acquerello capriccioso


Richard Abou Zaki e Pierpaolo Ferracuti


Richard Abou Zaki e Piepaolo Ferracuti sono le facce di diverse medaglie, con il loro Retroscena a Porto San Giorgio punta di diamante di diverse realtà legate all’accoglienza. Tanto è esuberante il primo, quanto riservato è il secondo. Entrambi però sono giovani professionisti di alta levatura. Richard racconta: “Adesso il ristorante è nuovo, undici tavoli per diciotto coperti a cui noi e i ragazzi dedichiamo tanto quotidianamente per reinventarci e trasmettere un punto di vista originale.” E continua spiegando la sua filosofia.


“Nel curare tutto il processo creativo di Retroscena dedico tutte le mie energie alla concentrazione del gusto. Faccio ricerca e sperimentazione senza mai tralasciare quello che è l’aspetto emozionale, un’emozione che certe volte può arrivare da un ricordo lontano o comunque da qualcosa che già conosciamo ma che per poter essere trasmesso ha bisogno di venire interpretato con una grande tecnica.” E l’esempio di tutto questo si esprime attraverso una degustazione fatta di tre piatti a base di riso, un interessante Vialone Nano del Delta del Po. Il Riso Adriatico identifica sia il carattere di Retroscena sia la vicinanza con Ascoli e le sue celebri olive ripiene.


In questo caso la Tenera ascolana è l’ideale per questo riso, trattata tra una salamoia classica e una piccola percentuale senza l’utilizzo di soda. Pronte dopo un periodo che va dai 9 ai 12 mesi, viene fatta un’estrazione a freddo, aggiunto una minima quantità di distillato di pomodoro, il collagene ottenuto da un brodo di rombo; ricciola sul fondo e il piatto è pronto, senza alcuna aggiunta di grassi. Il riso numero due è quello alla pesca fermentata (per tre settimane a temperatura controllata) che perde la sua dolcezza ma non l’intensità del frutto. Alla base ricci di mare, ancora pasta di arancia bruciata e olio al peperoncino: amari, acidi, dolci, note di contrasto che rendono il piatto estremamente originale. Bella infine l’idea dolce del riso all’Alkermes con angostura, burro alla vaniglia, riduzione di chinotto, cedro e bergamotto alla base a ricordare la zuppa inglese. E l’amido del riso regala al suo brodo una concentrazione di intensità notevolissima.


Gianluca Gorini


Gianluca Gorini è un cuoco di grande sensibilità, capace di commuoversi ricordando i passaggi della sua carriera che l’ha riportato a casa, a Bagno di Romagna, a realizzare un luogo di autentica accoglienza e soprattutto davvero aperto a tutti che nel 2019 ha ottenuto la sua prima stella Michelin: “A otto anni dicevo ‘voglio fare il cuoco e prendere la stella. Ho aperto nel 2017 ed è arrivata due anni dopo. E mia mamma me l’ha ricordato, dicendomi: ‘sei stato di parola’".


Gianluca continua: "Ho 39 anni e vengo da questo piccolo paese nel mezzo dell’Italia: un posto incontaminato, vero, profondo, definito dai paesaggi e dalle stagioni che scandiscono la vita delle persone e tutto quello che gira loro intorno.Sul confine tra (Emilia) Romagna, Toscana e Umbria, le influenze gastronomiche arrivano da tante culture. Racconta Gianluca: “Da noi si respira la gioia delle cose semplici, vengo da una famiglia di ristoratori e ho iniziato a quattordici anni tra pizzerie e stagioni negli alberghi. È una passione che ho sempre respirato ed è quella per l’ospitalità come fulcro e centro focale del nostro progetto: riuscire a creare un luogo dove le persone vengono a concedersi la possibilità di trascorrere momenti di piacere che sono sì i piatti che mangiano, ma anche la capacità di accogliere e di far star bene che riusciamo a trasmettere. Credo sia un tratto distintivo che ha caratterizzato il mio percorso perché il vanto della gastronomia italiana è proprio il ristorante come luogo d’incontro, convivialità, scambio e confronto. Come il pranzo della domenica, un momento in cui la famiglia si riuniva per dedicare qualche ora a ciò che più di concreto che c’è nella vita, che sono le persone che ti vogliono bene.”


A Bagno di Romagna la biodiversità è importante e per Gorini si è tradotta in una fitta rete di relazioni con i suoi fornitori di qui, che gli portano il meglio che si possa chiedere in termini di rappresentazione del territorio, quelle materie prime dalle quali Gianluca afferma di trarre energia e ispirazione per quel che crea. Come la semplicità (apparente) del suo piatto qui a San Sebastian, un raviolo che lui inserisce nel percorso di degustazione perché "agli ospiti sembra troppo semplice e tendono a non ordinarlo. Poi lo mangiano e arrivano i complimenti. Si tratta del raviolo con la sfoglia tirata a mano, ripieno di scalogno di Romagna liquido e abbinato alla cicoria amara passita, con un formaggio caprino fresco di grande acidità. Cotto sottovuoto a 80°C per un paio d’ore, i suoi liquidi vengono estratti al Greenstar per evitare ossidazioni e poi addensati per creare un ripieno semi-solido". Come spesso accade per le idee di Gorini, piccole bombe d’intensità nascoste.


Fabio Pisani


Il Luogo, partito dagli inossidabili, grandi Aimo e Nadia ormai sessant’anni fa, rappresenta per eccellenza uno dei ristoranti dove trovare la vera italianità in cucina. Materie prime, alta tradizione e una classicità brillante sono la regola. Anche se, come racconta Fabio Pisani (in cucina con Alessandro Negrini): “Il nostro ristorante ha sessant’anni, ma molte idee per il futuro: non puoi vivere di eredità, devi evolverti ma conoscendo la storia. Ecco perché abbiamo voluto creare un programma che si chiama Territori (ve lo abbiamo raccontato qui), con l’idea di salvaguardare materie prime e ingredienti e creare una connessione tra il cuoco e il fornitore, concepito come una risorsa che fa parte del nostro team ed è al servizio nostro. E viceversa. Un’interazione virtuosa, insomma, che si concretizza da un lato nella scoperta di nuove eccellenze da mettere nel piatto e dall’altro nell’apertura di un mercato più ampio.” Sono soltanto sei, per adesso, i fornitori selezionati: “Lo facciamo con metodo e utilizziamo un codice etico: si crea una sinergia unica, perché ne ricaviamo nozioni importanti, apprendiamo sia tecniche anche antiche sia conoscenza per fare avanguardia.”


Pisani, per toccare gran parte della penisola, ha presentato un carpione ‘contemporaneo’, un gel leggerissimo sul quale viene adagiata un’alice di Camogli marinata e ripiena di pesto realizzato con noci di Bleggio in Trentino. Viene aggiunta una cecina fritta a base di farina di ceci delle Murge e finocchietto toscano. Il piatto viene completato con il lardo preparato da Pisani e Negrini pestato in mortaio insieme al lampascione marinato in aceto di lampone e miele, con un’aggiunta di limone candito.

Carpione di alici di Camogli con pesto di noci del Bleggio e lardo di colonnata al limone di Sorrento - Basque Culinary Center

Paulo Airaudo


Chiude Paulo Airaudo, chef del 2 stelle Amelia a San Sebastian (e con diversi ristoranti in tutto il mondo). Argentino, con origini piemontesi e siciliane, interviene su “avanguardia e falsa tradizione italiana nel mondo", raccontando il suo punto di vista sulla cucina italiana che lui interpreta come omakase, carta bianca sull’Italia che Airaudo vede simile al Giappone per cultura delle materie prime e cura del particolare, in cui è fondamentale il rispetto della stagione che ormai è diventata micro-stagione. Da Amelia non mancano le paste ripiene e la griglia di carne che si ispira alla Toscana (e alla sua Argentina). L’olio arriva anch’esso dalla Toscana perché è quello che preferisce, la pasta e il riso rispettano la cottura al dente e se le lamentele a questo proposito non mancano, lui tiene la linea del rispetto della cultura d’origine. E infine, lui ha solo capi-partita italiani: “Perché sono i migliori...”


Da non dimenticare infine anche gli interventi dei partner italiani saliti sul palco intervallandosi ai cuochi per raccontare le loro realtà. Uno è Federico Ceretto delle omonime aziende vinicole, il quale ha una notevole conoscenza del mondo gastronomico grazie anche a Piazza Duomo, ristorante tre stelle Michelin con Enrico Crippa al timone voluto dalla famiglia. L’altro è Luigi Dattilo, fondatore di Appennino Food Group, anche lui come Ceretto finissimo gourmet e massimo esperto del mondo dei tartufi, di cui esistono un centinaio di varietà: l’Italia è l’unico paese in cui si possono trovare le sei specie che si possono lavorare in cucina.



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