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A Sud del classico: la cucina di Ilario Vinciguerra

di:
Alessandra Meldolesi
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Gallarate Ilario Vinciguerra rimescola le tre carte della sua maturità: la classicità francese con la carica popolana della Campania e le sofisticate alchimie della contemporaneità.

Il Ristorante

La filosofia di Ilario Vinciguerra


Una volta era la sede del circolo del bridge, la villa primonovecentesca che Ilario Vinciguerra ha eletto a cornice della sua maturità. Tre piani per accomodare una cucina di spessore sopra poltroncine ergonomiche in pelle nera, dentro l’atmosfera sospesa delle grandi maison: ovatta bianca e capnomanzie raffinate nell’aria. I fuochi si trovano nel seminterrato, sotto le sale chiare tappezzate di bottiglie a mosaico per cui volteggia la bella Marika Chioetto, direttrice di sala e sommelier, al fianco di Ilario da 12 anni; ancora una rampa e si accede alle sale per gli eventi, i congressi e le esecuzioni musicali. Tutt’intorno un vasto parco secolare, nel monopoli moderno della cittadina: “D’estate c’è chi mangia a piedi nudi sull’erba: una cosa straordinaria”.


Sui tavoli niente più bridge, ma le tre carte che Ilario rimescola incessantemente durante il pasto in un gioco spiazzante, che cattura il commensale come in un basso napoletano. Sono le carte degli stili, fulminee nei passaggi, allegoriche di età disparate. A cominciare dalla napoletanità, oggi egemone nella sua diaspora per alberghi e ristoranti del nord, certa all’anagrafe e sul curriculum grazie agli anni trascorsi al Don Alfonso. “Sono un partenopeo purosangue. Vengo da una famiglia di commercianti in frutta e della cucina mi sono innamorato perché mi sembrava un mezzo per viaggiare. Ma l’alberghiero l’ho fatto a Roma, prima di iniziare i miei stage. Penso che ognuno di noi debba cucinare quella che è stata la sua biografia: ogni piatto deve rispecchiare l’anima del cuoco. Gli stimoli che ho raccolto altrove ho sempre cercato di riassorbirli nella mia cultura. Anche se Napoli è tutto e niente, prodotti, ricordi, consistenze. Mi sento libero di adottare il katsuobushi o una tecnica straniera, senza fossilizzarmi in un cliché”. Del sud brillano l’oro rosso del San Marzano e le crisografie sinuose dell’extravergine, ingredienti feticcio dello chef: “Prepariamo personalmente le conserve ed è uno choc fare assaggiare il vero pomodoro, cotto su fuoco di legna, a chi non l’ha mai provato”.



C’è poi la Francia, vissuta alla Réserve de Beaulieu e poi al fianco di Alain Ducasse. “Mi ha lasciato soprattutto l’organizzazione, mentre in Giappone ho rubato le tecniche di cottura e di conservazione del pesce, insieme alla preparazione dei brodi”. E la contemporaneità, che ha regalato a Vinciguerra, trionfatore al concorso sull’olio di San Sebastian nel 2007, il suo posto nella cucina italiana durante gli anni ruggenti dell’avanguardia e continua a rivendicare il suo posto in carta, talvolta in chiave spettacolare, talaltra per via di un minimalismo quintessenziale: il Vinciguerra che prediligo. “La cucina sperimentale, che ho approfondito girando per ristoranti e per congressi, serve ancora in un grande ristorante, ma oggi bisogna tenere i piedi per terra. Non basta stupire se mancano la sostanza oppure le emozioni”.


Il risultato è una cucina no style, che si strappa di dosso il legaccio di qualsiasi appartenenza. “Non mi sento un cuoco napoletano, classico o contemporaneo, anche se posso essere tutte queste cose”. La prestidigitazione è anche nello scambio di paradigmi, dove il meridionalismo viene affrontato come un classico nella capacità generativa e nella petizione al rigore. “Il legame fra Parigi e Napoli del resto non è cosa nuova: ambedue le città hanno ospitato una corte, poi sono stati i monzù a fungere da trait-d’union. E figure come la mia e quella di Cannavacciuolo”.

I Piatti


L’esordio tuttavia è plebeo: sfizi da friggitoria bollenti come una provocazione. “Perché nessuno sa più prepararli, e noi usiamo farine biologiche, ricotta di bufala, pomodorini vesuviani. Prodotti semplici ma di altissima qualità. La nostra è sempre stata una cucina diretta, composta di pochissimi ingredienti per piatto. Agiamo per sottrazione in modo da lasciare tutto il gusto alla materia”. Segue il fritto contemporaneo degli appetizer: il fiore di zucca dell’orto con scorza di lime e lo scampo in panatura di nocciole al ketchup di San Marzano, seguito dall’aiguillette di petto di anatra marinato con cime di rapa e salsa alla liquirizia.


Il piatto premiato a San Sebastian, Profumo, è ancora in carta: una sfera in plexiglas ripiena di tartare di gamberi rossi, gelatine di limone di Sorrento e di nero di seppia. Una volta aperta e irrorata di olio del Garda, va scossa al tavolo in modo da sprigionare la fragranza a freddo, per via meccanica quindi senza pregiudizi per il gusto. Si assapora con il gin tonic contenuto nel suo supporto, come omaggio alle usanze della cittadina basca. Ma è il presente a premere: quello del branzino marinato al sale e leggermente affumicato giustapposto allo spicchio di cipolla rossa, cotta sottovuoto e poi bruciacchiata sulla piastra a carbonella, con una strisciata di salsa allo yogurt per ripulire. Piatto binario e interclassista che non tenta passerelle fra i due elementi diverse dalle loro evoluzioni indipendenti. Si fronteggiano così le consistenze, grazie alla marinatura del pesce nel sale, e le note empireumatiche. Con il caviale a spingere l’ittico e la sapidità: purezza e tecnica al servizio del prodotto.



Quando il mare incontra la terra è un mari e monti (schema quanto mai frequente nella cucina contemporanea) composto di polpo alla plancha e fondo di vitello, con la salicornia per sottolineare il mare e i pioppini fritti per il croccante. “È nato perché il polpo in bocca ha lo stesso morso della carne. Quindi in me ha evocato un sugo d’arrosto molto concentrato, al vino bianco”. Peperoni, patate e fichi crea invece uno stacco elegante come una rasoiata di zucchero fra le portate. “L’ispirazione si radica in un contorno che ho mangiato in una trattoria, ma anche nei peperoni con le patate che cucinava mia nonna, con una spruzzata di Aceto Balsamico Tradizionale”. Nella massa quasi neutra di una spuma di patate all’extravergine sono quindi sospesi peperoni arrostiti e fichi maturi, le cui dolcezze di vegetale e di frutto quasi caramellato dal sole entrano in un dialogo serrato. Più qualche crostino di pane per prolungare la masticazione.


Omaggio a Fontana tenta la strada del pittorialismo, prendendo spunto dai gesti dell’artista. Si tratta di un piatto di “cucina programmata”, cioè che evolve al tavolo, in cui trova sfogo la vocazione alla spettacolarità di Vinciguerra. Una volta incisa la pellicola che ricopre la fondina, al tavolo viene versato sopra le fettine di baccalà appena massaggiate in extravergine, condite con pomodori secchi e limone candito, un latte di provola caldissimo (ottenuto al microonde, separando liquido e solido) che a contatto con il ghiaccio secco sprigiona un fumo persistente, oltretutto affumicato grazie al latticino. Il risultato è una zuppa fredda dalla leggera acidità, che interpreta in chiave mediterranea il classico binomio di baccalà e latte.


I tortelli alla siciliana sono una portata di riposo, confezionata con gli ortaggi e la conserva della casa. Traducono la pasta secca in ripiena, le pennette alla siciliana in tortelli farciti di purea di melanzana arrostita sulla carbonella, ragù leggero di carne e qualche goccia di latte di Grana Padano, ottenuto per infusione e riduzione. Né manca un rimando alla parmigiana, con la testura dell’ortaggio spostata sulla pasta.


Only for you (così chiamato perché è lo chef ad approntarlo davanti all’ospite) rappresenta invece il contributo di Vinciguerra all’altra icona del sud, la pasta secca, di cui viene proposta una tecnica di cottura originale. Gli spaghetti Vicidomini vengono infatti lessati per 20 minuti in acqua di cozze e vongole ma sottovuoto, al momento della comanda. Sono quindi finiti in sala, sopra una lampada a induzione del terzo millennio, in modo da fare addensare il fondo di cottura. Il risultato è una pasta risottata nel gusto ma non nella consistenza (giacché il rilascio di amidi è contenuto, come si conviene a una preparazione di questo tipo), che sul piatto scalda qualche fettina di capasanta cruda. “Con la tecnica e lo studio abbiamo capito che la semola ha bisogno di due cose per passare dallo stato farinoso a quello gommoso: il calore e l’acqua. In questo modo non perde troppi amidi, ma il gusto del pesce riesce a penetrare all’interno”.



La triglia, molto mediterranea, è proposta spadellata, rivestita di patate in fili e ripiena di patate e capperi disidratati, con un sugo di San Marzano a crudo e al naturale, olive taggiasche in polvere e caprino fresco. Un gusto molto familiare e italiano, soprattutto una preparazione che salvaguarda la fragile carne del pesce. Segue l’agnello aragonese, allevato allo stato brado, particolarmente succulento grazie all’alimentazione composta di ghiande e mais, dal grasso fine e non selvatico, servito con il suo fondo, una guarnizione di porcini, una tazzina di spuma di senape e qualche goccia di miele millefiori. Difficile immaginare un secondo più classico, con la carne cotta a bassa temperatura e finita su una griglia bassa e chiusa, praticamente senza sfogo, con pochissima carbonella argentina. La spuma è ottenuta dall’essenza della senape in grani, filtrata ma non frullata, smorzata dal latte fresco e contrastata dal miele, punctum del piatto.


Per dessert il capolavoro di Vinciguerra: l’Oro di Napoli, semisfera che rivisita la classica pastiera. L’oro è nella gelatina neutra, a base di Kappa, che la riveste, mentre la farcia, più liquida del consueto, segue la ricetta di casa, quindi grano, crema pasticciera, acqua di fiori d’arancio e scorza di arancia candita. “L’oro è senza oggetto”, scriveva il filosofo Florenskij a proposito delle icone russe, dove opera una rottura con il mondo dei colori e gli oggetti terreni che essi rappresentano; succede lo stesso in cucina, dove segna l’incommensurabilità rispetto al cibo che lo precede e che lo segue con il suo non-gusto, quindi il passaggio a una mistica che in questo caso significa comunità e memoria. “L’idea è nata a San Sebastian, quando si mangiava solo al cucchiaio e impazzavano le sferificazioni, che presuppongono una base frullata. Io invece volevo far sentire la testura composita della pastiera originale, con un leggero dileggio verso le mode del momento”. La consistenza come oro italiano, insomma.


La carta dei vini, a cura di Marika Chioetto, si compone di due sezioni: vini di pronta beva o di nicchia e must italiani o stranieri, entrambi suddivisi in bollicine, bianchi e rossi. Le etichette complessive superano il migliaio, più qualche birra pensata per l’abbinamento con il pesce. Ci sono anche grandissime bottiglie di cui non viene riportato il prezzo, perché inestimabili, come una magnum di Château Pétrus del 1945 e tanti formati speciali, di Château d’Yquem come di Sassicaia. Fra gli abbinamenti di Marika, il branzino con il Maciete fumé e l’Oro di Napoli con il passito Masseria Frattasi.

 

Indirizzo

Ilario Vinciguerra Restaurant

Via Roma, 1 - Gallarate (VA)

Tel. +39 0331 791597

Email: eventi@ilariovinciguerra.it

Il sito web del Vinciguerra Restaurant

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