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Massimiliano Musso: la primavera di una storia

di:
Alessandra Meldolesi
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Da quattro anni Massimiliano Musso, esponente della quarta generazione a Ca' Vittoria, fa girare nuova linfa nei gangli di una maison storica, fra le più antiche del Piemonte.

La Storia

La storia di Massimiliano Musso


è una storia un po’ francese, quella del ristorante Ca' Vittoria. Acquattato dietro la facciata rosa di un edificio settecentesco a Tigliole d’Asti, in un passaggio che sfocia sullo spettacolo austero delle Colline Alfieri, punteggiate di chiesine romaniche, fra le Langhe e il Roero. È su quel verde schizzato di macchie silvestri e rigato di filari che la mattina si aprono gli scuri delle camere d’albergo; gli stessi colori e le stesse geometrie che si riflettono nello specchio basso della piscina, sui cui bordi sfrecciano d’estate gli aperitivi. Intanto sul prato si apparecchiano i tavoli sur l’herbe del ristorante, con il loro sinuoso corredo floreale sopra il bianco immacolato delle tovaglie.


Originariamente, quando la bisnonna Vincenza, detta Centina, allacciò per la prima volta il grembiule nel 1929, era solo una saletta spartana con la sua cucina rudimentale, il bar, poi sottoposto a innumerevoli ristrutturazioni, e qualche tavolino assiepato attorno al biliardo. Un punto di ritrovo che era qualcosa di più di un’osteria: piuttosto un “ostu”, come si dice da queste parti, dove si servivano i piatti tipici della zona, dagli agnolotti ai brasati. Il marito Alessandro nel frattempo produceva e commerciava vino, vitelli, grano e granoturco. Un’aristocrazia contadina ma vocata all’imprenditorialità.



Erano gli anni delle leggendarie mères lyonnaises: Eugénie Brazier, la mère Blanc, la mère Fillioux, cuoche autodidatte capaci di staccare anche sei stelle Michelin. E le donne della famiglia Musso non restarono a guardare. In particolare nonna Gemma, andata in sposa a nonno Aldo, che rimasto orfano si trovò a ereditare tutte le attività di famiglia. Fu lei, dopo qualche anno di trantran, in cui assorbì la lezione della suocera, l’artefice della trasformazione in ristorante vero e proprio, ribattezzato “Vittoria” al posto di “Alla Vittoria” e ampliato con l’acquisizione della macelleria adiacente, dove tuttora è ubicata la sala. In pieno boom economico, alla fine degli anni ’50, le prime vetture provenienti da Asti cominciarono a sbarcare in via Roma. Il passaparola fra i clienti lodava una cucina in piena evoluzione. “Ricordo che mia nonna viaggiava molto, per esempio in Francia. Poi era una lettrice accanita”, racconta Massimiliano. “Fu grazie alla curiosità, allo studio e all’istinto che la sua fama si sparse. Tanto che nel 1996 le fu proposta una stella Michelin che rifiutò, perché le sembrava intralciasse i grandi numeri che era abituata a fare. Cosicché l’anno successivo gliela affibbiarono a sua insaputa. A quei tempi il piatto firma era il girello di vitella cotto nel sale con robiola di Roccaverano, melagrana e olio alle erbe aromatiche, che ancora qualcuno ci chiede. Oppure i tajarin di ragù di anatra, che sono rimasti in carta, come il risotto alla coda di bue della bisnonna”.


Nel frattempo anche la casa dei mezzadri, oggi sede dell’hotel, era finita nel monopoli familiare. Saltata mamma Alessandra, tuttofare in movimento fra le camere, il giardino e la pasticceria, nel 2009 il testimone è passato direttamente dalle mani di Gemma a quelle di Massimiliano, che fino a quel momento aveva progettato un futuro diverso, sfiorando la laurea in Economia e commercio. “Ma qui dentro ci sono nato, avevo il seggiolone in cucina e ho sentito il richiamo irresistibile di quei profumi. All’inizio avevo un po’ di timore, perché pur avendo sempre dato una mano, soprattutto nel fine settimana, sono sostanzialmente autodidatta. Le mie esperienze le ho compiute in una pasticceria di San Damiano, che mi ha fornito le basi, poi da Morandin per i lievitati e da un amico fornaio di Asti sul pane. Girando a San Sebastian, in Russia e a Hong Kong avevo capito che un’evoluzione era necessaria. La cucina aveva perso un po’ di smalto e ho cercato di rigirarla, mantenendo qualche piatto storico”.


Fino allo stage da Crippa l’anno scorso, volto a ottimizzare l’approvvigionamento dall’orto. “Lo coltiviamo da 20 anni, dove prima c’era un pioppeto, coprendo la maggior parte del fabbisogno. Ma era molto convenzionale, con gli ortaggi scontati. A me interessavano piuttosto le semine particolari, tutte quelle tecniche che prima che biodinamica sono da sempre tradizione, come la coltivazione secondo le fasi lunari. Oggi, grazie anche a qualche corso, siamo in piena transizione; in primavera inizieremo a montare le serre e fra 4 o 5 anni saremo a regime completo. Per ovviare nel frattempo utilizziamo qualche cassetta per le erbe, come a Piazza Duomo”. La fogliolina fragrante su una cucina improntata all’eleganza, sempre sorretta da una mano leggera, la cui tendenza dolce e i cui impiattati estetizzanti rimandano alla precoce vocazione alla pasticceria.

I Piatti


I degustazione sono 3: quello dedicato alle specialità del territorio (“Terre Alfieri è”), dalla battuta di carne al guanciale di fassone su vellulata di patate, a 75 euro; “Tre +”, con 4 portate a 70 euro, e “5 +”, che ne conta 6 a 85 euro. Lo illustra in sala la bella moglie di Massimiliano, Valentina, che è anche sommelier. La sua carta è suddivisa per vitigni, a seguire si indicano l’etichetta con la percentuale calante, il produttore e la zona, per un totale di 350 referenze. Il Piemonte fa la parte del leone, ovviamente, a cominciare dalla Barbera per il territorio, servita già sugli antipasti (quella di riferimento è Scarpa); per gli appassionati ci sono poi Cà d’ Morissio, Monfortino e Gaja, con una buona profondità in verticale.



Si comincia con gli stuzzichini: il lollipop di Gorgonzola con zucca, liquirizia e foglia di shiso; il sandwich di cialda di riso e carbone vegetale con gamberi rossi e maionese di latte di soia, patate e olio di sesamo, sul modello di un cocktail di gamberi; il taco alle nocciole con stracchino, ricotta, agrumi e salmone marinato; il cannolo di finta carbonara composto di pasta brik spennellata di carbone vegetale e fritta, tuorlo cotto a 68 °C e pacossato, crema di Parmigiano e olio di bacon; l’omaggio al peperone, con la sfoglia di ortaggio alla Crippa, ottenuta per disidratazione col glucosio, farcita del ripieno classico di tonno, acciughe, capperi e maionese, sempre di soia, più qualche erba per l’acidità e una brunoise di peperoni arrostiti. Notevolissimo anche il pane preparato con il lievito madre di Morandin, al gusto di olive, alle albicocche o integrale; con l’alternativa della focaccia e della baguette.


Ottimo, in antipasto, il coniglio e note vegetali, dove protagonista è la carota dell’orto, sbollentata e spadellata con burro e rosmarino fino a caramellizzazione. Viene servita con la spalla, cotta a bassa temperatura e croccantata in padella senza grassi, una crema di carota elevata a potenza, cotta nel succo di carota con il cardamomo in infusione come un tè, la spuma di rafano su base acidula di yogurt e un fazzoletto di sfoglia di carota. Dove sembianze nordiche di orto e di terra celano armonie gustative orientali, nella speziatura e nel contrasto fra dolce e piccante, chiuso dal leggero amaro della buccia, che insaporisce il crumble evocativo della geofagia.


Interessanti anche le lumache di Cherasco, sospese fra i flavour principle della tradizione piemontese e note orientali quasi thai. “Questo piatto mi è venuto in mente rientrando da Hong Kong, dove molte ricette sposano il latte di cocco all’aglio. Avevo bisogno di un ingrediente che gli venisse tradizionalmente associato e ho pensato alle lumache. Quindi alla base del piatto una crema di aglio alla maniera marchesiana, con gli spicchi sbianchiti per 5 volte nel latte, che funge da trait-d’union e sopra i molluschi cotti nel court-bouillon e poi saltati con il latte di cocco, fino a leggera caramellizzazione; l’olio al prezzemolo per la riconoscibilità e i porcini disidratati in polvere per esaltare la terra”.


Fra i primi i bottoni di patata viola affumicata serviti con verdure, atriplice verde (una specie di spinacio ma più fresco, che sembra cotto ma è crudo, perché osmotizzato sottovuoto con l’olio di vinaccioli), crema di blu del Moncenisio e polvere di spinacio disidratato ad alzare la mineralità. La guarnizione è stagionale, con topinambur e rape rosse che premono in inverno: il tripudio dell’orto.


Nel comparto secondi l’anatra marinata alla lavanda per tutta la notte, da alleggerire leggermente, e cotta sottovuoto a bassa temperatura, servita con un classico fondo di anatra, il coulis di hibiscus per l’acidità che sgrassa e per le note floreali, che formano un bouquet con quelle della marinatura, rape rosse e bianche, mirtilli, lamponi e atriplice rossa, in un quasi monocromo dedicato al colore del sangue.


Classici i dessert, per esempio Pera e cioccolato, ispirato alle madernasse del cugino. “Hanno una bella acidità, di cui altre varietà sono sprovviste, e una testura croccante. Sono presenti in forma di dadolata cotta al miele di acacia, semifreddo e gelato; a contrasto con il tronchetto di bavarese di cioccolato fondente e caramello e con il biscotto, sempre al cioccolato”.

 

 

 

Indirizzo

Ristorante Albergo Ca’ Vittoria

Via Roma 14 - 14016 Tigliole d’Asti (AT)

Tel. +39 0141 66 77 13

Mail: info@ristorantevittoria.it

Il sito web del Ristorante Ca' Vittoria

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