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Pino Cuttaia: “Ecco la mia imperfezione perfetta”. In progetto anche la nuova sede de La Madia con un boutique hotel

di:
Alessandra Meldolesi
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pino cuttaia la madia

È una cucina di poesia, quella di Pino Cuttaia, cuoco “materno” che scalda il piatto di un afflato domestico e sprigiona meraviglia da tutto quanto è familiare.

La Storia

Sottrarre effetti, implementare affetti. Sembra questa la ricetta che Pino Cuttaia continua ad applicare alla Sicilia nella sua Madia, ristorante modesto nel senso etimologico di quanto coltiva il senso del limite e il gusto della misura in questi tempi di pirotecnica egolatria culinaria. In procinto di traslocare, il menu 2019 si gusta ancora nelle salette spoglie di Licata, paese urbanisticamente arruffone della Sicilia meno glamour. Da visitare per la poesia orizzontale di un’endocucina evoluta, intimistica, straordinariamente elegante al palato e tutt’altro che dimostrativa. La forza dell’understatement in un sussurro vernacolare.


“Entro la fine dell’anno con mia moglie Loredana inizieremo i lavori per creare un boutique hotel dove offrire ospitalità e ristoro. Con le nostre forze, senza soci di capitale, perché si può investire in un territorio come questo solo per appartenenza. Penso a figure come i fratelli Trovato e la famiglia Santini, che hanno saputo forgiare realtà laddove erano nati. Come tanti chef francesi, che si sono fatti ambasciatori del territorio, investendo per dare l’esempio. Qualunque sia il luogo, basta avere l’energia e la visione. Perché nessuno è lontano da nessuno. E abbiamo scelto un palazzo storico nella via dove sono nato: un ritorno alle origini, che vuole rappresentare anche un tentativo di riqualificazione”. L’uovo di seppia, bottega con ristorazione veloce e asporto, traslocherà nella nuova location, mentre l’attuale Madia potrebbe essere riconvertita in bistrot o trattoria. “Il legame è troppo forte, ma ancora non sappiamo”.


Cuttaia vi ha trascorso 20 anni, conquistando la prima e la seconda stella Michelin da autodidatta pressoché totale, all’opera dall’età di 15 anni, per lungo tempo operaio, poi lavapiatti, infine cuoco nelle brigate del Sorriso di Soriso e del Patio di Pollone. “Ricordo che prendevo le guide, per esempio l’Espresso, e cercavo il ristorante con il massimo punteggio. Mi proponevo anche come commis, mantenendo un basso profilo, perché non sapevo che ambiente avrei trovato e volevo evitare figuracce. Gli stessi ristoranti dove magari sono tornato per fare la mia cucina. Perché a volte i sogni si realizzano”.


Ma Cuttaia continua a prediligere un paradigma familiare, dove il tepore non solo termico del piatto cova una nostalgia di casa. “Penso che il cuoco sia la mamma contemporanea. Questa spesso non ha più tempo di stare ai fornelli, allora siamo noi a diventare custodi del gusto e difendere le tradizioni. Sennò si perdono secoli di saperi, alchimie di palati, tutta la cultura di un popolo nata dalla necessità di contadini e pastori”.


I menu degustazione sono tre: l’Illusione a 110 euro, il Mare inaspettato a 130 e la Scala dei turchi, carta bianca a 170. “Racconta il mare e la terra, senza limiti. Significa mangiare un paesaggio, una stagione, un territorio ripercorrendo passato e futuro. Lontano dalle rotte gastronomiche e turistiche, trovare l’energia per fantasticare ed essere ogni giorno quel bambino, che immagina qualcosa e cerca di realizzarlo”. Qualunque sia la scelta, il mix è fra piatti vecchi e nuovi. “Perché i miei menu non cambiano mai completamente. Seguendo le stagioni, ogni carta riprende le ricette dell’anno precedente, ma interpretate in modo diverso. Perché magari sono cambiato e vedo la patata sotto un’altra forma”.


Altri piatti invece sono diventati dei classici, immortalati nella loro forma definitiva che rappresenta l’energia del momento. Non posso più cambiarli e i clienti vogliono ritrovarli, perché sono entrati nella loro memoria. A chi non capita di canticchiare una canzone di Sanremo? Il piacere è lo stesso, poi magari nel tempo arriveranno l’arrangiamento e il remake”. Il piacere del riconoscimento e del secondo grado.

I Piatti

La sottrazione inizia dagli appetizer e dalla piccola pasticceria, che alla Madia non compaiono. “Mi sono sempre ben guardato dal seguire uno standard: mi identifica meglio una portata di benvenuto, che coccola l’ospite. Anche per un problema di spreco alimentare, perché la cucina siciliana è generosa e si finirebbe per mangiare senza appetito. Piuttosto la mia miscela di caffè è il cioccolatino, che appaga senza sovraccaricare”. Menzione speciale per il pane, la cui farina è molita in un piccolo mulino proprio utilizzando grano margherito e maiorca completo di crusca e germe, nell’imminenza della panificazione affinché non irrancidisca.


Il benvenuto può variare, ma è sempre caldo per la coccola che dicevamo. Per esempio l’ormai classica pizza di merluzzo affumicato con spuma di patate, evoluzione della patata schiacciata con il pesce e il condimento alla pizzaiola, che è poi diventato pizza, dove il sifone fornisce un’illusione di mozzarella. “Quest’anno nell’ottica dello scarto zero ho recuperato la pelle del merluzzo, leggermente affumicata e soffiata”. Fornisce carattere e sapidità, ma evoca anche il gesto e il crunch delle chips in aperitivo a inizio pasto.


Oppure l’altrettanto iconica mozzarella di bufala ricostruita nelle testure, con la pelle di latte attorno alla sifonata di bufala non di giornata, ma di qualche giorno. L’idea di una nuvola, con l’accompagnamento della spremuta di pomodoro per la caprese e la panzanella in liaison con il pomodoro per un’idea di scarpetta o pappa.


È già un signature anche Memoria visiva, fettina di alalunga proveniente da Licata, in mancanza Acireale o Aci Trezza, come tutto il pesce, appena passata in forno con gambi di prezzemolo, erba cipollina e poco aglio, servita con un condimento di olio e limone. Evoca un refrain delle case siciliane: la fettina a bagnomaria preparata dalle mamme per i figli indisposti. Ma la poesia germoglia dal seme di limone nel centro, simbolo di vita, ma anche vettore di croccante e amaro sul grasso del pesce, in un iperminimalista shabu shabu siciliano. “Per aggiungerlo ci sono voluti 50 anni. Perché l’età del cuoco è indispensabile per cogliere il senso di un’imperfezione perfetta. A trent’anni magari avrei aggiunto una grattata di tartufo o una cascata di fiori. Mentre oggi prevalgono l’introspezione e la naturalezza del gesto domestico, il senso della vita e dell’amore”.

“Una sera un cliente mi ha chiesto tre volte dei gamberi crudi. Per non ripetermi ho creato questo ‘battutino’: una di quelle idee che non sai come ti vengono”. Viene servito con maionese di bottarga di tonno intensamente sapida e olio agli agrumi di stagione, attualmente mandarino verde.


Ma la Scala dei Turchi vale il viaggio. All’apparenza un paesaggio commestibile monocromatico, in bocca molto di più, anche grazie alla trovata del cucchiaio caldo che dinamizza la degustazione. “Tutto è nato vedendo un piatto artigianale che somigliava a quelle rocce. L’ho comprato senza sapere cosa farne, a parte il nome. La prima idea è stata quella di un dessert, una meringa frastagliata e croccante. Ma lavoravo a una schiuma di mare e ho pensato di ricreare la sensazione di un’immersione attraverso una sfoglia di seppia farcita di ricci di mare in purezza, che sembra quasi una medusa, più l’alga leggermente essiccata per la sensazione di scoglio, tuffo, immersione. Poi mi sono chiesto: perché si scalda sempre il piatto, e la posateria mai?” Non senza genialità, accelera l’evanescenza della schiuma e trasmette una sensazione di calore estivo, come falesia al sole. Mentre in bocca vince l’eleganza di un grande chef.


La seppia, sostanza filosofale di Cuttaia, torna nel Caldomare, insalata tiepida servita sotto un velo di cefalopode. “Professionalmente sono nato negli anni ’80. È un piatto che è sempre stato pensato freddo, ma l’ingrediente col tepore ne guadagna e il mare esprime tutto il tuo gusto. Se la Scala dei Turchi è una mareggiata, il Caldomare è una sosta sul materassino, al calore del sole, con le onde che ti cullano”.


Altro understatement è lo spaghetto trafilato in casa con “déjà-vu di pomodoro”. “Ci sono piatti come gli spaghetti con le vongole che sono intoccabili, fanno parte della nostra memoria. L’idea allora è stata quella di viaggiare come un’ape, che va in cerca del polline, richiamando alla memoria tutte le paste e i piatti al pomodoro che abbiamo assaggiato nella nostra vita, anche un’insalata e una passata estiva. Lavoro su un blend di 3 varietà, datterino, ciliegino e piennolo, che conferiscono acidità, dolcezza e comfort. Il succo che ne ricavo per estrazione è incolore, con la parte rossa che viene ridotta in polvere”.

Quadro di alici



Polpo sulla roccia



Le sarde alla brace sono arrostite al tavolo e accompagnate secondo tradizione da una cipolla paglina di Castrofilippo in agrodolce. “Un pesce alla portata di tutti, dove spariscono il ricco e il povero, resta solo il buono. Lo affumico su carbone di mandorle, per un gusto quasi nordico, con la cipolla che sgrassa e celebra la simultaneità delle stagioni fra terra e mare”.


Al predessert di gelato di fico completo di buccia, che trasmette la sensazione di mangiare il frutto intero sull’albero, completo di vegetale e tannino, segue un tiramisù atipico. “In tutta la Russia si fa colazione con la kascha, gesto d’amore della mamma verso i figli. In Italia non abbiamo niente di simile, perché il cappuccino è moderno e da bar; se non forse lo zabaione, che nonni e genitori non si sono mai stancati di montare, visto che un tempo tutti avevano le galline. La kascha italiana è lo zabaione, più i savoiardi all’amido di riso, che ricorda la kascha stessa e la pasticceria siciliana, cioccolato o cacao”.

Indirizzo

Ristorante La Madia

Corso Re Capriata F., 22, 92027 - Licata AG

Tel. +39 0922 771443

Mail info@ristorantelamadia.it

Il sito web 

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