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Concezione, l’alta cucina con ingredienti “poveri” che ammalia Catania

di:
Alessandra Meldolesi
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COPERTINE RG CORNICI 17

A Catania Manuel Tropea spariglia con una cucina contrastata, che restituisce il pathos cittadino e le sue mille seduzioni attraverso ingredienti poveri e dimenticati, gusti estremi eppure identitari.

Concezione Restaurant

Il ristorante


Le grandi città sono da sempre piazza ostica per la ristorazione siciliana, i cui fine dining sono piuttosto annidati nelle splendide località turistiche. A Catania la gente preferisce le putie, come chiamano le trattorie, locali dove si spende poco o pochissimo, ma si può mangiare bene e con gusto, per quanto rusticamente. Di certo in modo identitario rispetto alla standardizzazione schiacciapalato in corso. Proprio da quel vivace conservatorio è voluto partire Manuel Tropea, chef nato 29 anni fa nel quartiere di Picanello, per mettere a fuoco il suo concetto, anzi la sua concezione di cucina siciliana.


La mia storia è un po’ diversa da quella di tanti ragazzi, che sono partiti da grandi ristoranti o scuole prestigiose. Io ho iniziato dalla tradizione verace dei posti popolari, che avevo frequentato con mio padre operaio e mia madre casalinga. Da sempre avevo chiaro di voler svolgere questo lavoro, la cucina come gesto di amore. Anche per via di chef Tony con i suoi coltelli, una pubblicità che mi aveva ammaliato”. Eccolo quindi fare l’extra al pomeriggio, durante la scuola, e sgobbare per tutta la Sicilia, fino ai 5 stelle di Taormina, primo punto di contatto con il fine dining.


Nel frattempo, leggevo tanti libri, anche scientifici, per capire il mondo dietro la cucina, l’ossidazione, il rancido, la trasformazione della materia; provavo e riprovavo ricette, cercando di creare il mio piccolo bagaglio di appunti. Da Coria sono stato capopartita agli antipasti, poi per la mediazione di Giuseppe Biuso sono entrato in contatto con Davide Guidara, che stava aprendo il Sum. Mi ha conquistato la sua grinta, volevo capire la reazione di Catania. E sono rimasto dall’inaugurazione fino alla chiusura, durante dieci mesi. Siamo simili e diversi, uniti dalla curiosità e dalla voglia di metterci in gioco, prendendoci anche le coltellate che ci arrivano. Poi in cucina la sensibilità è differente, come le nostre esperienze, visto che lui ha fatto tanto estero e si sente; punta al mono ingrediente, mentre io ne assemblo tanti”.


È seguito un passaggio alla Dimora delle Balze di Noto, dove Tropea ha collaborato all’azienda conserviera di verdure bio. “Ma il mio pensiero fisso era creare qualcosa a Catania per Catania, dove esiste un solo fine dining, Sapio. Allora ho ripreso in mando i miei appunti e ho cercato il luogo adatto: in centro, ma fuori dalle rotte turistiche, ho trovato un locale che era già stato un ristorante. L’ho completamente trasformato in otto mesi di lavori, con la cucina a vista, come la volevo io, e le volte sul soffitto, per la vecchia atmosfera”.


Il restyling è minimal e contrastato, bianco su nero, come la cucina, che punta sulla carica identitaria di sapori tutti da scoprire. Sensazioni indigene, che non guardano verso la Francia, ma neppure a Oriente o al Nord Europa, nel paniere locale e stagionale, ma soprattutto nella deflagrazione gustativa. È quella che Manuel chiama “Concezione”, non senza un’eco religiosa. “Perché un catanese può cambiare, ma resta sempre catanese”. La matericità incorona prodotti poveri e dimenticati, pesci azzurri negletti e quinto quarto che pare settimo o ottavo, improvvisamente riscattati con afflato quasi etico e profondo orgoglio, senza imbonimenti né addomesticazioni. Piuttosto l’ingegno del dilettante sta nello spingerli all’estremo, enucleandone l’intensità avanguardista. E incredibilmente il palato catanese approva, tanto nitida è l’identità.


I piatti


“I prodotti umili sono sempre stati al centro della cucina siciliana, comprese le tavole borghesi. Trasformarli è una sfida ancora più bella, perché posso aiutare le persone a superare i pregiudizi”. Arrivano dal vicino mercato dove Manuel fa la spesa praticamente ogni giorno e animano 3 menu degustazione da 5, 7 o 10 portate, rispettivamente a 70, 90 o 120 euro: Timbro di voce, sinestesia fra la raucedine dello chef e l’idiosincrasia della proposta, è il più accomodante; Accento marcato, che allude direttamente alla catanesità, più spinto; A fantasia dello chef senza remore. In abbinamento un centinaio di etichette in gran parte isolane.


Nel cestino pani da grani siciliani a lievitazione naturale: i grissini di tiraditto, le chiacchiere e il paninetto di russello o timilia, la mafaldina di perciasacchi, la focaccia al lievito madre e polvere di origano, le chips di lievito madre e pomodoro siccagno, la pagnotta in condivisione dalla crosta biscottata sulla mollica fitta, secondo la tradizione catanese e per facilitare la scarpetta. Ad accompagnarli 3 tipi di burro da panna di vacca modicana, ottenuti con scarti di tenerumi, peperoni e melanzane.


Sono piatti che non possono lasciare indifferenti. Per esempio, Concezione da Tiffany, cappuccino salato composto di zucchina quarantina con calamaro ghiacciato su foglie di limone, limone primo fiore, arancia di Scordia, acqua di lupini di mare, schiuma di acqua di mare, polvere di bucce di pomodoro datterino e radici di basilico, più un paninetto al lievito madre e peperone secco per la brioche. Sorta di mina a grappolo che lancia acidità-sapidità-consistenze incomode, ricreando una “concezione” di equilibrio anche termica.


Good morning Catania è piatto esperienziale, come una cinepresa in soggettiva che catturi le percezioni vergini del turista. “Qui in centro vedo tanti stranieri con i loro trolley, sembrano spaesati e curiosi, travolti da mille profumi. Girano per le strade come un cucchiaino finché non trova l’equilibrio”. Sul piatto significa battuto di fichi, gelatina di fichi d’India, polvere di fico pala, vongole, acqua di vongole glassata, cedro candito, glassa di pomodoro datterino, cagliata di mandorle amare e polvere di bucce di melanzana per l’Etna di fronte al mare. Uno street food caratteriale e quasi cacofonico, di nuova “concezione”.

Costardelle e sciroppo di funghi



Ceci neri parlanti



Manuel, tuttavia, tiene soprattutto al suo Risotto al nero di trippa, preparato con l’unico riso siciliano rimasto, un Carnaroli coltivato a Lentini. Viene cotto con un fondo di pesce bianco lasciato sul fuoco per 8 ore, in modo da con-centrare l’umami, mantecato con olio al lemongrass e osso di seppia per la sapidità senza sale. La sorpresa è sotto la sua coltre: una trippa di vitello tenuta in salamoia per 72 ore, in modo che perda struttura e selvatico, cotta per 4 ore in un court bouillon vegetale, tagliata a julienne e inserita dentro una seppia, cucita come una vescica. In cottura si apre e si chiude a fisarmonica, fino a esplodere, regalando freschezza marina e cremosità; più una salsa di interiora di seppia, al pass nero di seppia, polvere di bucce di datterino e menta selvatica, glassa di ciliegino ridotto. Un piatto ingegnoso ed estremo, che parla di testure.

Risotto al nero di trippa



Passeggiata in via Plebiscito è la rilettura in forma di raviolo del più tipico street food catanese, il panino al cavallo, di cui si emulano acidità, succulenza e testure tenaci. Quindi la pasta di semola e tuorli all’origano secco, per il massimo nerbo, la farcia di diaframma, muscolo e tendini, per il giusto mix fra ferrosità, succulenza e masticazione, il fondo di cavallo e la sferificazione di salmoriglio all’origano selvatico dell’Etna; in sala un bricco di brodo di cipolla di Giarratana bruciata, che con la ricotta salata nella farcia ricompone l’insalata della nonna in accompagnamento.

Passeggiata in via Plebiscito



Il sauro attinge dal repertorio popolare dell’agliata, correggendone i refusi: il pesce è nobilitato da una cottura leggera, che ne valorizza la morbidezza; farcito di polvere di pomodoro secco, marinato in aceto di more, passato in oliocottura e al barbecue, è servito con crema all’aglio nero, radici di menta, glassa all’aceto di more e Champagne. Il predessert scherza sul prosciutto e melone dei banchetti, in assenza di salume. È il frutto stesso, tenuto in salamoia per 45 giorni, a caricarsi di sapidità e mutare testura, più crumble di cappero di Salina, olio affumicato e salsa tiepida alla vaniglia per la scivolata nel dolce.

Prosciutto e melone- Cantalupo in salamoia



Chiude A Catania non sappiamo fare la Sacher, ironia di un cuoco fieramente autodidatta, ispirata all’antica ricetta della caponata con le melanzane. Quindi l’ortaggio marinato per un giorno nel latte con la vaniglia e cotto con le fave di cacao, glassato al cioccolato e nappato di salsa al cioccolato meno fondente, spolverizzato di polvere di pomodoro datterino e foglie di basilico con gelato al ciliegino di Pachino, acido e freddo sul calore del piatto.

A Catania non sappiamo fare la Sacher


Indirizzo


Concezione Restaurant

Via Giuseppe Verdi, 143, 95131 Catania CT

Tel: 095 1693 6122

Sito web

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