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I cocktail bar chiedono aiuto: la fase 2 potrebbe rappresentare un ulteriore problema dal quale sarà difficile rialzarsi

di:
Chiara Marando
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bartender coronavirus

Le Interviste

Dopo quasi due mesi dall’inizio dell’emergenza Covid-19 e altrettanti giorni di lockdown delle attività industriali e commerciali, quelle non considerate di prima necessità, si sta timidamente cominciando a guardare verso una ripartenza. Chimera di cui ancora si sa poco, tanto attesa quanto temuta, la riapertura del comparto food&beverage viene vista con quella incertezza più che giustificata di chi non sa cosa aspettarsi.

E si parla di un settore che rappresenta un patrimonio per l’economia italiana, basata in larga parte su turismo e ospitalità. Perché se l’attenzione principale è indirizzata all’ambito ristorazione, c’è anche tutta quella importantissima “fetta” di piccole aziende che spazia tra bar, lounge bar e cocktail bar su cui ci si sofferma molto meno. Perché? Forse la risposta si trova nella percezione comune che riconosce questi luoghi come solo di passaggio, come espressione di qualcosa di cui si può fare a meno.


In fondo, si può rinunciare all’aperitivo giusto?

Invece la realtà è completamente diversa. Si tratta in tutto e per tutto di attività che rientrano nel comparto hospitality tanto caro al nostro Paese, ma altrettanto a rischio. Anzi, forse di più proprio perché tendenzialmente invisibile e meno considerato. Il fatturato dei bar, nel senso più ampio del termine, rappresenta circa il 10% del Pil italiano, un movimento economico significativo proprio in virtù della sua natura di esperienza che rientra nell’ambito delle socialità e della cultura di una nazione che ha fatto dell’ospitalità la sua carta vincente. Servire un cocktail e servire un piatto rientrano nello stesso ambito di piacevolezza e gusto. E anche le regole stabilite dall’Asl sono le medesime di quelle imposte ai ristoranti, alle trattorie e alle pizzerie.

Ma com’è la situazione attuale del mondo cocktail bar e come viene percepito l’immediato futuro?

Due le voci di professionisti che fanno chiarezza sul tema descrivendo il quadro tutt’altro che roseo comune a Milano e Roma, città solo apparentemente lontane come abitudini e preferenze.



FILIPPO SISTI, BARTENDER E IDEATORE TALEA E VIVARIUM, PIONIERE DELLA CUCINA LIQUIDA

"Vivo e lavoro a Milano, ma sono originario di un paesino vicino a Lodi quindi, fin da subito, ho vissuto l’emergenza come tale anche se ancora non se ne percepiva la portata. Già con l’arrivo del 1° decreto la reazione è stata scioccante, soprattutto perché la convinzione era quella di avere a che fare con una influenza. Noi abbiamo deciso di chiudere subito, per senso di responsabilità. Ma quello che abbiamo constatato è stato di essere soli e impotenti, di lanciare un grido di aiuto che nessuno era in grado o aveva voglia di sentire. Siamo stati colti da una sorta di rassegnazione per totale mancanza di sostegno, sicurezze e prospettive. Il tutto con spese fisse mantenute nonostante la chiusura forzata, con conseguenti perdite economiche che sta diventando doloroso calcolare. Oggi i cittadini si dividono tra chi ha paura, chi deve lavorare e chi vuole lavorare ma non può farlo. Io sono stato uno dei primi a decidere di fermare tutto per rimanere a casa, e ho 4 locali qui a Milano. Ma ora dico anche che non possiamo andare avanti così. Dobbiamo riaprire, ma devono metterci nelle condizioni di farlo in modo dignitoso, altrimenti non ha senso e risulta solo dannoso. Per questo sono più preoccupato della fantomatica fase 2, perché quasi certamente potrà rappresentare un ulteriore problema dal quale sarà difficile rialzarsi.


Ciò che poi fa passare qualsiasi passione e stimolo è proprio il fatto che la nostra professione non venga riconosciuta come tale quando, invece, è parte integrante del comparto “hospitality” italiano. Noi e la ristorazione facciamo parte dello stesso mondo e, insieme, dovremo seguire in modo comune le regole che il Governo deciderà di farci applicare nel momento dello stop al blocco. Ma ciò che vorrei è che i decreti prendessero in considerazione la realtà dei fatti, il che significa una completa impossibilità di mantenere distanze di 2 metri tra un tavolo e l’altro, giusto per fare un esempio. In molti locali queste distanze non sono applicabili, si traducono nella chiusura. E ciò è il risultato di una “non conoscenza” del mondo food&beverege. Non esistono buone soluzioni se non si ha idea del problema. Purtroppo la legge, e la sua interpretazione in merito al nostro lavoro, è deviabile”.

Inoltre, quello che credo è che le grandi città subiranno maggiormente questa seconda fase. È una questione di paura e psicologia. A questo si aggiunge la totale mancanza di stranieri in una città che, negli ultimi anni, rappresentava un fulcro della mondanità. Non solo, se si pensa solo alla zona dei Navigli, il 90% dell’incasso dei bar deriva da turismo straniero”.

 

ALESSANDRO PROCOLI, BARTENDER THE JERRY THOMAS PROJECT ROME


"Siamo imprenditori che rischiano tutto: passione, tempo e soldi. Il comparto all’interno del quale operiamo è quello dell’accomodation, esattamente come ristoranti, pizzerie e trattorie, ovvero le fondamenta sui cui si regge buona parte dell’economia italiana. Ma la nostra voce non viene ascoltata o presa in considerazione, forse perché considerata debole. Ecco perché stiamo cercando di riunirci in una associazione, una voce univoca composta da ristoratori, imprenditori, bartender e gestori di cocktail bar.

Qui a Roma abbiamo la necessità di farci sentire, ma penso sia un tema comune a livello italiano e senza distinzioni territoriali. Se penso al nostro lavoro, e questo anche prima dell’emergenza coronavirus, la situazione a livello di regolamentazioni rendeva difficile non solo mantenere la rotta, ma proprio rimanere a galla. E oggi stiamo aspettando di capire quali saranno le limitazioni imposte da Governo, per poi poter capire come muoverci di conseguenza. Perché va bene la prevenzione, ma alcune restrizioni sono surreali: per fare un esempio pratico, un locale con 25/30 posti non potrà fare altro che chiudere se rimarrà l’imposizione dei due metri di distanza. E sono numerose le attività in queste condizioni.


Nel momento della riapertura credo che Roma risponderà positivamente, come ha sempre fatto da dieci anni a questa parte, ma ci sarà da fare i conti con l’economia spicciola. Si taglierà per forza di cose il superfluo, quindi le uscite al ristorante o una bevuta fuori con gli amici. Ma questo è un comune denominatore ovunque. Poi le città più grandi vanno a braccetto da tempo in fatto di evoluzione nelle abitudini, abbiamo creato una sorta di community dove molti locali rappresentano internazionalità, cultura del viaggio.

Parlando di soluzioni, è difficile fare congetture oggi. Come “Jerry Thomas” quello che abbiamo pensato di fare è inserire un piccolo menù aggiuntivo con drink a un prezzo maggiormente accessibile, senza però modificare la carta storica. In questo modo si riesce ad andare incontro a una fetta di pubblico più ampia, rispondendo a necessità di spesa differenti. Si fa quel che si può, certamente sono idee e proposte alla cieca

E per quanto riguarda le richieste al Governo, utili alla riapertura, chiederei per tutto il comparto dell’hospitality opzioni immediate, che vadano oltre gli sgravi fiscali: sospensione dei pagamenti, permettere a chi ha spazio di inserire qualche tavolo in più, sempre in sicurezza, abbassare l’IVA e il costo del lavoro”.

Wine Reporter

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