Mondo Vino

Vini vulcanici: umani prima che naturali, l’Etna secondo Salvo Foti

di:
Alessandra Meldolesi
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vigneri salvo foti

La Storia

Per i siciliani l’Etna è Idda, la Signora Montagna che a chi vive su pendici e costoni dona acqua e fiori, cibo e lavoro. Anche vino, da sempre, un tempo per l’autoconsumo, oggi anche per enofili esigenti. “In casa mia si è sempre fatto”, racconta Salvo Foti, che di questa storia è indiscutibilmente il primo autore. “Lo faceva mio nonno, lo faceva mio padre. Avevano il palmento, ma lo vendevano sfuso. Ricordo che da piccolo mi buttavano dentro con il ‘bummolo’, un contenitore di acqua da cui si abbeveravano durante il lavoro. Il mosto mi piaceva perché era dolce, ma quando fermentava non potevo più sentirlo. Io però disobbedivo e alla fine stavo male”.


Da quei tempi quasi tutto è cambiato, anche se non sembrerebbe nella sua cantina di Milo, dove spingi il cancello e scopri la fattoria degli animali, con le galline siciliane che razzolano fra le oche e le caprette, in mezzo a noccioli e alberi di mele. “Nel vecchio mondo contadino non esisteva la monocoltura, la biodiversità era la regola. Nelle vigne piccole e scomode su per la montagna, in mezzo ai pecorai, nello stesso appezzamento trovavi anche una dozzina di vitigni, i bianchi misti ai rossi, qualcuno sconosciuto. Perché in una situazione estrema, era più probabile riuscire a portare a casa qualcosa. La scienza la chiama complementation, complementazione”.


Questo è Salvo Foti: uno che quando l’alternativa era fra partire e partire, da figlio di contadini ha studiato enologia a Catania, sua città natale, e oggi scioglie a modo suo i nodi del vino. Mettendo scienza e tecnica al servizio di un sapere popolare e del riscatto delle tradizioni, in un’ottica di sostenibilità culturale oltre che ambientale. “Tante difficoltà, che oggi sono diventate opportunità. A vinificare ho iniziato nel ‘90 con Benanti. Allora ho compiuto la mia prima ricerca scientifica con luminari come Rocco Di Stefano dell’Istituto Sperimentale di Asti, per capire fra l’altro cosa fosse di preciso il nerello mascalese. Poi nel 2001 sono partito in solitario”. Ed è proprio questo doppio cervello, antropologico e scientifico, a costituire lo spessore di un vino che non ha l’ingenuità dello sfuso del contadino, eppure è altrettanto territoriale, con una consapevolezza più matura.


Oggi l’Etna è diventato un crogiolo in cui c’è di tutto. Non esiste un tipo di vino: ognuno lo fa a modo suo e pensa di rappresentarlo. Qualcuno per business, qualcuno altro per fede, altri ancora da sprovveduti. La confusione è grande. Volendo sintetizzare, vedo due grandi categorie: chi fa i vini etnei e chi fa i vini sull’Etna. Nel senso che tutti vorrebbero bere un vino etneo, ma se arrivi da fuori e imponi il tuo modello, fai il colonizzatore; se invece privilegi la quantità, è un lavoro di rapina. Invece bisogna cercare un’espressione territoriale, nel senso della civiltà dei luoghi. La Borgogna ha un’identità e nessuno penserebbe di impiantarvi nerello mascalese. Se dovessi fare un Barolo, per prima cosa investigherei sul territorio e sulla storia, assaggerei i migliori produttori, studierei il nebbiolo, insomma cercherei di conoscere cosa c’era prima di me, per apportare un contributo personale. Questo sull’Etna manca. Tutti arrivano con l’atteggiamento: te lo do io l’Etna. Nessuno va a vedere cosa è stato fatto prima, mica per caso. Ma già nel 1773 Domenico Sestini in Memorie sui vini siciliani aveva parlato dei vini dell’Etna, che andavano considerati partendo dalle peculiarità del territorio, che non poteva essere omologato alla Toscana”.


Poi ci sono le mode. “Tutti cercano la novità. Va bene anche il pinot nero, io stesso l’ho vinificato per Benanti e Gulfi. Ma sapendo che non sarà mai un Borgogna. La finezza del pinot nero è data dal calcare, che sull’Etna manca completamente. Nella nostra ricerca abbiamo scoperto che solo due vitigni al mondo sono privi di antociani acilati, il pinot e il nerello mascalese, ma non basta per chissà quali congetture. Poi anche io ho qualche pianta di chenin blanc, perché mi piace sperimentare”.

Oppure l’anfora: ne ho due, me le hanno regalate, sistemate e benedette dei produttori georgiani. Allora mi sono chiesto come usarle, non per la macerazione, perché non mi piace, ma per la conservazione. Questo è un vino che non deve soffrire il freddo, sennò il colore precipita, e sottoterra la temperatura non scende mai sotto i 7-8 gradi. Poi la terracotta è porosa, scambia molto col terreno e se passa la geosmina può trasmettere un odore terroso. Per questo la rivestiamo di cera d’api, non di resina epossidica, che è tossica. Quando ho iniziato a fare vino, ricordo che per filtrare si usava la farina di amianto. Ma era necessario studiare per scoprirlo, mentre adesso chiunque può sapere. Non posso giustificare l’ignoranza”.


“Oggi si parla tanto di ‘naturale’, ma mi chiedo che cosa voglia dire. Il vino è un prodotto dell’uomo, in cui da sempre ha messo tutto se stesso, il suo genio, la sua creatività, la sua passione, il suo estro, sacrificio e impegno. In certi casi anche furbizia, ipocrisia, disonestà e scorrettezza. In definitiva ognuno fa il vino che è. Se è vero che ha la forma di un triangolo, i cui vertici sono il luogo, il vitigno e la persona, io voglio collocarmi sul lato della storia collettiva e delle tradizioni vitivinicole, non certo della creatività individuale. Parlo di vini umani, non di vini naturali. Perché la biodinamica ha meno di 100 anni; la viticoltura antica, greca o mediterranea, almeno 2000. Nel vino non c’è niente di naturale, perché i batteri fanno il loro corso. La natura non è bella o brutta: l’arcobaleno non è altro che un fenomeno naturale, che però emoziona. Come una bottiglia, che può emozionare perché ha dietro una storia. Se faccio vino, in fondo è perché non lo capisco. Continua a sfuggirmi sotto il profilo umano”.


Se la conoscenza è ricordo, ammoniva Borges, la novità è oblio. Da qui il ripescaggio per il rosso dei Vigneri del palmento in pietra lavica con la chianca, che oggi, nonostante 2000 anni di storia, sarebbe illegale, ma non viene ridotto come altrove a museo della civiltà contadina. “Ed è una vinificazione difficile, molto ossidativa, che richiede una pulizia maniacale. Ma per me rappresenta una tradizione da tenere in vita, che consente di vinificare senza energia esterna. Poi la superficie estesa del secondo livello, dove avvengono macerazione e fermentazione, consente un contatto maggiore con le bucce e una concentrazione superiore di colore, provvidenziale vista la scarsità di antociani del nerello mascalese. Anticamente, lo ripeto, niente veniva fatto per caso. Invece ho dismesso le botti, che erano vecchie. Sull’Etna purtroppo si è estinta la tradizione del bottaio. Per quello bisogna andare al nord, se non in Francia”.


Le vigne di Foti, talvolta ultracentenarie, sono tre, perlopiù a piede franco e ad alberello etneo, impianto che meglio si presta all’aridocoltura: a Milo, altitudine 800 m, nella parte est; a Castiglione di Sicilia, sul versante settentrionale, a 590 m; nel comune di Bronte, nord ovest, a 1200 m. Sono coltivate senza uso di prodotti di sintesi, esclusi anche dalla vinificazione con fermentazione spontanea e raspi, senza controllo di temperatura.

Dalla prima vigna provengono i bianchi Aurora e Vigna di Milo, a base di carricante e minnella bianca; dalla seconda, contrada Porcaria, l’Etna rosso Vinupetra. Dall’ultima infine il Vinudilice, ricavato da una vigna immersa nei boschi di lecci, in dialetto ilici, scoperta casualmente cercando un allevamento di maiali semiselvatici. Isolata e altissima, la più apicale di tutte, era coltivata da un signore anziano con una decina di vitigni diversi, bianchi e rossi. Condizioni estreme, tanto che se mancano i gradi fornisce un metodo classico; altrimenti il tipico rosato dell’Etna.


Poi ci sono le collaborazioni esterne. “Ma anche qui sono consulente, perché è tutto intestato ai miei figli, che compiranno le loro scelte. Simone ha frequentato un corso biennale di studi teorico pratici in Borgogna, mentre Andrea sta frequentando enologia a Milano”. Sono i Custodi delle Vigne dell’Etna, ma anche Federico Graziani, il californiano Rhys, Gulfi a Chiaramonte Gulfi, Guglielmo Manenti nel Vittoriese e Daino a Caltagirone.

Wine Reporter

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